«Hard to be a God». Quant’è difficile essere Umani

«Hard to be a God». Quant’è difficile essere Umani

Hard to be a God, spettacolo scritto e diretto da Kornél Mundruczó e recitato dagli attori del Proton Theatre, andò in scena per la prima volta nel 2010, anno in cui Viktor Orbán vinse nuovamente le elezioni in Ungheria: la rappresentazione esprime appieno un’Europa tutta sesso, soldi e violenza.

L’allestimento torna quest’anno alla Biennale Teatro 2021, al Parco Albanese di Mestre, Venezia: Stefano Ricci e Gianni Forte, direttori del festival, propongono una riflessione su un’Europa che va sfaldandosi, sfrenatamente liberale e conservatrice, indagandone le cause e conseguenze attraverso gli spettacoli proposti nel catalogo.

Tanti sono i problemi posti dall’accoppiata ricci/forte, una la risposta: «Quando farete una bella rivoluzione?», chiede Édouard Louis in Qui a tué mon père? di Thomas Ostermeier [lo abbiamo recensito qui], altro spettacolo in programma. Difficile a dirsi e a farsi, ma intanto Proton Theatre riporta in scena una tragedia riguardante i giri di prostituzione dei più beceri bassifondi ungheresi.

Al posto del palcoscenico, ci sono due tir: il primo ospita una sartoria di jeans per Gucci in cui una donna, Mamy Blue (dalla famosa canzone anni Settanta, il motivetto torna sistematicamente nel corso dello spettacolo), gestisce anche un traffico di prostituzione. L’altro tir, di cui è possibile vedere solo l’ingresso, è il set per un film porno di “denuncia” nei confronti di un parlamentare europeo ungherese, ma nei fatti il filmino pornografico finisce per trasformarsi nell’ennesimo sopruso ai danni delle donne, in particolar modo nei confronti delle tre prostitute di Mamy Blue che vengono stuprate, torturate o peggio.

Mundruzcó, nel muovere i suoi attori da un tir all’altro, usa sapientemente due linguaggi: il primo tir è rivolto verso la platea a vera e propria sostituzione del palcoscenico, l’altro viene mostrato attraverso uno schermo su cui vengono proiettati i fotogrammi del filmino porno amatoriale. Tra i vari personaggi c’è anche un dottore, osservatore esterno silenzioso proveniente da un altro pianeta, a metà tra l’alieno e il divino, unico personaggio in grado di provare pietà. Infine, compare un altro inaspettato personaggio, anch’esso osservatore silenzioso e non partecipe: il pubblico stesso.

Più volte gli attori ricordano agli spettatori la loro presenza infrangendo la quarta parete con commenti ironici fino al climax della storia in cui la rottura è totale: il dottore, dopo aver sentito una delle ragazze (quella incinta) urlare tra i tendoni e le gomme del tir, si rivolge disperatamente al pubblico, chiedendo a qualcuno di agire, di prendere il posto della prostituta.

Alzarsi o non alzarsi? Osservare o partecipare?

Tra la prime file si alza timidamente una mano e, guarda caso, è di una ragazza pronta a sostituire l’attrice.

Mamy Blue interviene per dire che si sacrificherà lei, senonché le ulteriori grida della ragazza incinta fanno precipitare il corso degli eventi: il dottore agisce, per la prima volta, ponendo fine alla violenza con altrettanta violenza.

Hard to be a God stabilisce un collegamento diretto tra il pubblico e la scena facendo leva sulla coscienza dello spettatore in quanto cittadino europeo che forse per agire deve ritrovare il divino che ha in sé.

Tuttavia, la domanda resta comunque: che soluzione si può adoperare? Quando faremo una bella rivoluzione?

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