La sera del 24 luglio, in occasione di uno degli ultimi appuntamenti del festival Portraits on stage diretto da Settimo Cielo, i Giardini della Rocca abbaziale di Subiaco e il morbido paesaggio collinare della Valle dell’Aniene hanno accolto Un Bès – Antonio Ligabue. Lo spettacolo, pluripremiato, è il primo capitolo della trilogia dedicata a questo artista, nata nel 2013 dalla fantasia di Mario Perrotta. Incarnando con parole e disegni le sofferenze e il carattere complesso di Antonio Ligabue, l’attore-autore restituisce al pubblico la personificazione di un mondo interiore travagliato e denso d’amore.
Una sagoma emerge dal pubblico mugugnando, cogliendolo quasi di sorpresa. Ha uno sguardo elettrico, indossa un cappottaccio scuro, la faccia è sporca di carbone. È Antonio Ligabue, o forse qualcosa che assomiglia più alla sua anima, che si materializza di colpo sulla scena. Guarda la platea mentre conta le persone presenti in tedesco.
‹‹Posso? Scusi? Do fastidio? È permesso?›› continua a ripetere incessantemente.
Poi si ferma, sceglie una signora del pubblico e le chiede un bacio. Poi ne chiede un altro ancora, e ancora. Nulla di più, soltanto quello gli basterebbe.
Tutto il senso dello spettacolo potrebbe essere sintetizzato in questa scena iniziale. Perché trovarsi ai margini non è una scelta, anzi spesso è la conseguenza diretta di vivere in una società che facilmente si presta a giudicare, ma raramente è disposta ad agire, a comprendere la diversità che gli si palesa davanti. La vera solitudine infatti nasce da questo vuoto di comunicazione, che per Antonio Ligabue altro non fu che un’ossessione nata da una carenza d’affetto. La necessità di categorizzare porta inevitabilmente a escludere chi è diverso, finendo per ingigantire e problematizzare il suo sentirsi diverso.
Con estrema linearità cronologica le scene ripercorrono la vita dell’artista, partendo dall’infanzia in Svizzera, dove fu adottato dopo essere stato abbandonato perché nato prematuro.
‹‹Non potevi aspettare tredici giorni in più?›› sono le parole che Ligabue rivolge alla madre biologica, in un dialogo immaginario che prende vita grazie al carboncino con cui Perrotta delinea per tutto lo spettacolo volti e paesaggi.
Sul palco infatti la scenografia è composta soltanto da tre pannelli su ruote che da finestre reticolate si trasformano, all’occorrenza, in fogli giganti su cui disegnare.
A proposito del rapporto tra il segno grafico e la tensione emotiva del personaggio in scena Perrotta afferma:
‹‹Disegnare e interpretare insieme mi è parso all’inizio impossibile. È davvero complesso compiere due gesti artistici e farli convivere in maniera così istintiva e poco razionale. Per questo ho imparato a memoria anche i disegni così come si impara la parte››.
All’atto pratico vengono evocate delle immagini dal testo, immagini forti del vissuto dell’artista che ritornano. I fantasmi della sua mente prendono corpo sul disegno e diventano i suoi interlocutori.
‹‹Volevo che lui ci parlasse come se fossero lì davanti – afferma ancora l’autore – ma allo stesso tempo avevo bisogno che li vedesse anche il pubblico, soprattutto per riuscire a esprimere al meglio i rapporti emotivi, come ad esempio la relazione tra Ligabue e le sue due madri, quella adottiva e quella biologica. Quando ho pensato di realizzare questo spettacolo non mi interessava l’aspetto figurativo in sé per sé, quanto piuttosto l’esperienza umana. In questo senso per me disegnare in scena significa parlare la sua lingua, perché Ligabue fondamentalmente sa parlare così››.
La narrazione degli eventi continua tra cambi di atmosfere e colpi di scena. Una crisi nervosa conduce l’artista lontano dalla madre adottiva e dalla Svizzera fino in Emilia Romagna, a Gualtieri. Qui, appena giunto, viene da subito preso di mira dagli abitanti del luogo. Lo “spaesato” Ligabue diventa lo scemo del villaggio, lo sfortunato protagonista della noia di un piccolo paesino dove la gente, pur di far qualcosa, si diverte a fare prepotenze contro chi è più vulnerabile e indifeso. Gli abitanti del paese vengono trasfigurati sotto forma di enormi faccioni carnacialeschi, tratteggiati con violenza sui tre grandi fogli. La violenza subita, il racconto delle angherie che l’artista dovette subire coincide con una violenza agita: il tratto del disegno si fa convulso, l’intensità emotiva con cui Perrotta/Ligabue si riferisce alle immagini cresce insieme al ritmo e al volume della voce.
L’umiliazione è tale al punto da costringere Ligabue a rifugiarsi nel bosco. Qui, vivendo da solo in miseria e al freddo, inizia a scoprire l’argilla del fiume. Impara a dipingere con quello che ha. Usa la terra per fare il rosso, l’erba per il verde e l’urina per fissare i colori. Poi un giorno ecco la rivelazione: l’incontro col pittore Renato Marino Mazzacurati, che lo invita nel suo studio. Grazie a lui Ligabue non scopre soltanto i pennelli, le tele, il bianco della neve, il blu del cielo, il nero, ma inizia anche a sentire che questo suo immenso dolore può essere canalizzato in un atto creativo.
Il guaio è che, così come ci vediamo, gli altri non ci vedono, avrebbe detto Pirandello. Anche se questo per Ligabue non è mai stato un problema. Nella sua arte si preoccupava esclusivamente di trasmettere ciò che provava attraverso i colori e la tela. Non dava importanza alla sua immagine di artista, non gli interessava il riscontro del pubblico. Praticamente tutto il contrario di come un artista si presenta ai nostri giorni, laddove l’immagine che dà di sé rappresenta un aspetto centrale del suo lavoro. Questo significa che bisogna essere folli per avere una libertà espressiva totale? Oppure è possibile raggiungere questa libertà portandosi appresso la propria maschera?
Per Mario Perrotta, l’importanza che oggi viene data alla rappresentazione della propria immagine è connessa a un aspetto pressoché generazionale:
‹‹Ormai il selfie è diventato una categoria dello spirito. Come a dire: “se non mi fotografo non esisto”. Io invece ho avuto la fortuna di vivere un’epoca in cui ci si rappresentava in altre maniere. Faccio fatica a entrare in questa modalità autoriflessiva. Certo è inevitabile indossare una maschera. Forse solo chi vive al limite, al confine come Ligabue, può pensare di non preoccuparsi della maschera. Tuttavia questo non significa che bisogna essere necessariamente folli. Dovremmo semplicemente sforzarci di esprimere ciò che sentiamo e pensiamo, perché è possibile vivere con l’identità che ci si è costruiti senza che questo passi per l’ossessiva proposizione della propria immagine. Io cerco di salvarmi facendo teatro››.
Lo spettacolo volge al termine. Ligabue grazie all’aiuto del suo amico pittore è riuscito finalmente a esporre le sue opere a Roma. Il mondo si è accorto di lui finalmente, ma per l’artista non c’è più tempo per godersi questo successo. Ligabue riconosce i presenti al suo funerale: quelli che prima lo chiamavano scemo ora piangono. Non per lui però, ma per aver buttato via le sue opere. Anche da morto l’hanno deriso.
Il vento culla le ultime parole smorzate dell’artista, mentre i fogli sparsi qua e là per tutto il palcoscenico oscillano dolcemente. Le luci si dissolvono sull’ultima richiesta d’amore disperata…
‹‹Dame un bès…Dame un bès!››.
24 LUGLIO ore 21.00 SUBIACO – Giardini della Rocca Abbaziale
UN BÈS – ANTONIO LIGABUE
Produzione Teatro dell’Argine
di e con Mario Perrotta
collaborazione alla regia Paola Roscioli
Premio Ubu 2013 Miglior Attore – Premio Hystrio 2014 Migliore spettacolo dell’anno – Premio ANCT 2015 al Progetto Ligabue (Un bès / Pitùr / Bassa Continua) – Premio Ubu 2015 Miglior Progetto Artistico o Organizzativo al Progetto Ligabue