Fake Folk - foto di Laila Pozzo

Tra Fake e Folk: intervista ad Andrea Cosentino

Finisce l’estate, comincia la festa. A dispetto di quel retrogusto malinconico che accompagna l’arrivo dell’autunno, è partito, dal 17 settembre, il progetto speciale Fake Folk, con cui il Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma torna (e continua) ad abitare il territorio del V Municipio della Capitale. Non uno spettacolo, né una rassegna, ma una sorta di carnevale, una festa, per il gusto di festeggiare – festeggiare cosa? Il teatro?, la rinascita?, la piazza?, una nuova stagione? Forse.

«Un format capace di contenere di tutto» si legge sulla presentazione online. Abbiamo incontrato il padrino della festa, forse anche un po’ patrono, Andrea Cosentino, protagonista dello spettacolo-evento Fake Folk, stesso titolo, delle serate dal 23 al 26 settembre al Parchetto Modesto di Veglia.

Una scena da Fake Folk
Una scena da Fake Folk

Che cos’è fake per te?

Il fake è il falso, evidentemente, ma il falso è tale in quanto si pretende vero. Il teatro agisce su un altro livello, è finzione, e la finzione non si giudica in rapporto a una corrispondenza a ciò che pretendiamo esista, ma piuttosto per la sua capacità di aprirci punti di vista altri e stranianti sul reale. Per quel che mi riguarda, da sempre dico di essere interessato più alla verità della finzione, che alla finzione della verità. Anche il nostro progetto simula e mette in parodia una festa di paese, ma ciò nondimeno vuole essere una festa. Direi addirittura nello spirito più puro delle feste tradizionali e dei carnevali, dove si ammazza il vecchio per fare spazio al nuovo. Solo che nel mondo folklorico il vecchio e il nuovo coincidono, e ogni primavera e ogni raccolto ci si augura che siano uguali ai precedenti. È evidente che non siamo più in questo universo, persino in senso metereologico: abbiamo perso ogni rapporto con la cultura popolare, e addirittura distrutto l'affidabile ciclicità della natura. E nonostante ciò, penso che si debba avere la lucidità di dichiarare e celebrare questo scarto, e avere la forza di festeggiare anche nell'apocalisse. Perché festeggiare è il primo passo per provare a ricostruire un mondo abitabile. 

…e che cos’è folk?

Il folk è il popolo, un popolo che non saprei più bene come descrivere, né se esista, un popolo di volta in volta, in passato, idealizzato o dileggiato, ma che comunque nei secoli ha saputo costruirsi dei rituali di sopravvivenza e una sua cultura per quanto subalterna. E che oggi, invece, è ridotto a consumatore di prodotti confezionati altrove, seppure prodotti da lui, per lui e contro di lui, e non c'è bisogno di scomodare Pasolini per vederlo.

Da dove nasce, invece, Fake Folk?

Nasce da lontano, dalla mia passione per le forme di spettacolo popolari e subalterne, appunto, dal mio interesse per la comicità carnevalesca, e dunque dal mio costante tentativo di fare un teatro che straripi dalla sua vocazione borghese di dispositivo di rappresentazione audiovisuale, per costruire un dialogo vivo con chi vi assiste. La questione non è creare capziosi giochini di coinvolgimento fisico o drammaturgico, ma la relazione che instauri dal palco, il fatto che chi ti guarda si senta al contempo guardato e visto, fino a sabotare sistematicamente ogni tua autorevolezza nello stesso istante in cui ti separi dagli spettatori salendo sulle tavole del palcoscenico. Le origini più programmatiche risalgono, invece, a un progetto-concept che realizzai parzialmente, ormai credo una quindicina di anni fa, in maniera avventurosa, coinvolgendo all'epoca alcuni colleghi e realtà artistiche che gravitavano attorno al vecchio e glorioso Rialto Sant'Ambrogio. Si trattava di collaborare tra artisti per inventarsi, ognuno con i propri mezzi e la propria estetica, i numeri e le attrazioni di una finta festa tradizionale. Oggi il progetto è completamente diverso, senza dubbio più compiuto e ragionato e meno selvatico, ma le radici sono in quella roba lì, che chiamammo «la festa del paparacchio», il cui obiettivo era, già allora, quello di fare la festa alla festa. Dove il paparacchio era l'oggetto tipico, la tradizione finta, metamorfica e inafferrabile, era qualunque cosa, da pietanza, ad animale, a rituale, e in definitiva era la pretesa di fingere una continuità e un’appartenenza al passato che invece erano irrimediabilmente spezzate. Il fulcro era la reinvenzione della tradizione e la denuncia della strumentalità di questa operazione. E il divertimento di parodiare quello che osservavo già vent’anni fa girando l'Italia, ovvero piccoli comuni che riservavano tutte le proprie energie creative e finanziarie a tirar su sagre e feste spesso campate in aria, con piatti tipici, sante locali o presunte eroine, a uso e consumo di un turista affamato di autenticità a buon mercato. Oggi la situazione in qualche modo credo sia persino peggiorata.
Fake Folk - Foto di Laila Pozzo
Fake Folk – Foto di Laila Pozzo

Lo spettacolo denota un considerevole utilizzo di nuove tecnologie. Come si integrano questi linguaggi con la tua caratteristica capacità di dialogo diretto con il pubblico, con il tuo carattere attoriale a metà tra clownerie e varietà? E in che modo la tecnologia ha determinato l’elaborazione drammaturgica?

Questa è la novità concettuale più forte rispetto al vecchio progetto di cui parlavo, e l'altro nodo importante di riflessione in Fake Folk. Ovvero, oltre al rapporto tradizione-innovazione, c'è la dicotomia reale-virtuale, ed è un modo per parlare di vecchi e nuovi modi di socializzare, per problematizzare il concetto di comunità.  In fondo, già il mio modo di stare in scena, come accennavo, è un continuo tentativo di rompere la regolarità di una comunicazione monodirezionale, di sottrarmi come soggetto di enunciati autorevoli e oggetto di sguardi. È il lato osceno della comicità che mi interessa, da sempre, la sua vocazione a rompere l'impermeabilità della scena. La festa è un passo ulteriore, e non può essere qualcosa che fai da solo. Mi sono circondato di artisti fantastici – parlo di Nexus, Alessandra De Luca, Lorenzo Lemme, Dario Aggioli, Antonio Belardi e Anna Coluccia – programmaticamente diversi da me e tra di loro, per specificità, campo d'azione e interessi, e che avevano voglia di infilarsi con me in questa avventura, della quale sono coautori a tutti gli effetti.  Di conseguenza, anche la cosiddetta drammaturgia non è il prodotto di un unico sguardo, e questa a mio avviso è una ricchezza, oltre che una necessità, se vuoi fare qualcosa che vada oltre lo spettacolo. Così Fake Folk non va guardato come un'opera compiuta e omogenea, di quelle del genere «che cosa ci ha voluto dire l'autore...», semmai è uno spazio da attraversare, un tempo da vivere, o un “dispositivo”, per usare una definizione à la page, capace di contenere di tutto, punti di vista, numeri, arti, codici, attrazioni. A una festa non puoi chiedere il precetto estetico dell'organicità, perché il suo centro e la sua organicità stanno nella comunità che vi partecipa. Non si tratta, insomma, di cesellare un'opera chiusa, efficace, finita e definita. Anzi, perché ci sia vera festa, è d'obbligo che venga messa troppa carne al fuoco, affinché nessuno possa nemmeno immaginare di poterla consumare da solo.

Torni al Quarticciolo dove ti abbiamo lasciato con TEMPI MODERNI/Un Dante corretto bravo grazie. Come si sta sviluppando il tuo rapporto con quel territorio?

Innanzitutto direi che c'è il rapporto che sto costruendo con Antonino Pirillo e Giorgio Andriani, del Teatro Biblioteca Quarticciolo e della compagnia Cranpi, che dopo avere ospitato e assistito a una prima bozza di Fake Folk, hanno scelto di produrlo, e devo dire che con la loro cura e attenzione verso tutti gli aspetti del progetto, artistici e gestionali, sono stati assolutamente preziosi, dunque spero di continuare a collaborare in futuro. Per il resto, prima e più che col territorio specifico del Quarticciolo, per me, come anche con sfumature differenti per Roberto Castello e il suo progetto Tempi Moderni al quale ho dato un mio contributo, si tratta di cercare nuovi territori, e senso per il nostro lavoro, specialmente in tempi postpandemici. Per come la vedo, sarebbe un peccato che si pretendesse di ricominciare come niente fosse, come se il bisogno primario delle persone, ammesso e non concesso lo sia mai stato, fosse ancora quello di consumare cultura, e non di ritrovarsi comunità. La mia opinione è che dobbiamo ricercare un rapporto diverso con l'evento artistico, al contempo festoso e laico, disincantato eppure ambizioso. Direi che noi teatranti dovremmo imparare a considerarci come gente che lavora a costruire “oggetti” che non sono altro che occasioni per un incontro sociale, il più pieno e appagante possibile ovviamente, e per far questo, sia chiaro, non bisogna essere meno bravo o complesso o divertente o emozionante, proprio il contrario direi.

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