Il tempo attraversa il mondo e le persone, cambia l’ordine delle cose, i percorsi della gente, le direzioni dell’umanità. Vent’anni fa, nel 2001, il nuovo millennio si affacciava su un mondo che in meno di un anno sarebbe cambiato.
Nel 2001 esce il primo iPod, in Europa i Paesi Bassi legalizzano eutanasia e matrimoni omosessuali, un attentato abbatte le Torri Gemelle del World Trade Center di New York, scoppia la guerra in Afghanistan.
E il 2001 è l’anno di quelli che sono passati alla storia come “i fatti del G8 di Genova”.
Celebrare non è la parola giusta, ma certo c’è da tenere a mente per non dimenticare, da ripassare quello che è accaduto allora, per restare vigili nell’oggi. In occasione di questo ventennale il Teatro Nazionale di Genova allestisce G8 PROJECT Il mondo che abbiamo, «nove spettacoli tra memoria e futuro», dice il sottotitolo del progetto fortemente voluto dal direttore artistico Davide Livermore e affidato ad Andrea Porcheddu, qui in veste di dramaturg, già critico teatrale, docente, intellettuale appassionato e militante – sua anche l’idea di AssK – Afghan Students Seek Knowledge, fundraising e serata promossi dalla Sapienza a sostegno degli studenti afghani tenutasi a Roma, presso lo Spazio Rossellini, lo scorso 18 settembre.
E per conoscere meglio questa iniziativa genovese abbiamo incontrato proprio il curatore, giocando in casa, essendo, Porcheddu, tra i fondatori di questa nostra esperienza de Le Nottole di Minerva.
Com’è passare dall’essere critico all’essere dramaturg?
Molto divertente, una bellissima sfida perché è un lavoro che non ho mai fatto. Ho iniziato a fare critica nel 1988-89 ed è sempre stato un mestiere strano che si è declinato nel tempo in varie attività, dalla scrittura giornalistica, all’insegnamento, a una pratica pedagogica e universitaria – da cui sono nate anche Le Nottole di Minerva – e poi laboratori, workshop e anche consulenze con teatri e Festival. Mi è capitato di fare anche delle piccole direzioni artistiche in passato. Ma la spinta adesso è stata quella di provare a passare da un pensiero critico a un’azione critica. Un tentativo, soprattutto dopo la lunga stasi del lockdown, di dare concretezza a una valutazione teorica, a quello che è sempre stato un approccio filosofico, estetico, politico. Ho avuto l’opportunità, grazie a Davide Livermore che mi ha chiamato e mi ha voluto qui a Genova, di cimentarmi con un teatro “da fare”, con le produzioni, con una progettualità territoriale, ed è completamente diverso essere dentro una struttura produttiva come un Teatro Nazionale con settant’anni di storia e che in città rappresenta qualcosa di molto importante.
Chi è e cosa fa il dramaturg? In Italia ancora non è molto chiaro.
Comincia a chiarirsi cosa sia anche in Italia, perché molte strutture si stanno dotando di questa figura, penso all’ERT Emilia Romagna Teatro con Sergio Lo Gatto, al Teatro Nazionale di Torino con Fausto Paravidino e altri. Queste figure stanno in qualche modo entrando nella pratica teatrale, non solo come consulenti letterari o drammaturgici in senso stretto, ma, almeno per quel che mi riguarda, con un’attività a tutto campo, in piena collaborazione con la direzione artistica. Nel mio caso, con Davide parlo di tutto, dalla programmazione alle ospitalità, dal rapporto con le altre istituzioni della città alla comunicazione, è un'azione abbastanza ampia che si concretizza poi in alcuni progetti specifici come G8 Project. Fare il dramaturg vuol dire, forse, vivere appieno la molteplicità delle azioni teatrali che emergono da un teatro e cercare in qualche modo di mettere concretamente in azione una prospettiva che può essere quella del pensiero critico. Ci riusciremo? Ci proviamo. Intanto partiamo da questo enorme progetto che nasce da un’intuizione di Davide Livermore: il direttore del teatro pubblico della città non ha voluto far finta di nulla a vent’anni dai fatti del G8.
In cosa consiste allora G8 Project?
Il progetto è partito questa estate con una prima iniziativa che si intitolava Fare Luce, un'installazione super tecnologica in cui con il cellulare il pubblico inquadrava dei QR code in uno spazio vuoto e bianco costruito dentro al palcoscenico, e da lì si scaricava semplicemente la cronologia dei fatti delle giornate del G8. Senza alcuna opinione, solo i dati, che erano agghiaccianti molto più di qualsiasi riflessione si potesse fare. Adesso invece, con i mezzi e i linguaggi del teatro, proviamo a capire che cosa è successo in questi vent’anni. Come siamo cambiati, come sono cambiate le città, come è cambiata l'economia, come è cambiato il mondo, come sono cambiati i rapporti sentimentali. Abbiamo contattato 8+1 autrici e autori, otto perché sono gli otto Paesi che presenziavano al G8 – Canada, Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Francia, Italia, Russia e Giappone – e uno perché abbiamo aggiunto l'Unione Europea, pure presente al G8. Sono stati scritti testi molto interessanti. Abbiamo corso un rischio, perché è stato un po’ un blind date, tra loro alcuni autori come Roland Shimmelpfenning, come Nathalie Fillion, come Fabrice Murgia, sono già molto apprezzati, altri, invece, come Toshiro Suzue, o Wendy McLeod, o Guillermo Verdecchia, sono molto famosi nei loro paesi ma non sono mai arrivati in Italia. Sono tutti decisamente di valore: adesso il risultato comincia a vedersi, proprio perché raccontano in modo molto diverso quanto e come quel 2001 è stata una cesura, un cambiamento radicale, ci sono state le Torri Gemelle, le guerre, le telecamere agli angoli delle strade, la militarizzazione delle città...
Tutti testi commissionati apposta per il progetto?
I testi sono stati scritti proprio per Genova, per questa occasione, per questa città. Sono molto diversi eppure, volendo fare in una riflessione da dramaturg, in una drammaturgia collettiva sembra funzioni avere visioni che analizzano questioni e situazioni geograficamente più ampie, insieme ad altri che sono invece più legati ai fatti del 2001. Fausto Paravidino, ad esempio, che fu il primo a scrivere un testo su Genova, Genova 01, adesso fa una sorta di assemblea civica, di discussione aperta, chiamando in causa gli spettatori. Oppure penso a Fabrice Murgia a cui è successa una cosa straordinaria: ha iniziato a scrivere per noi e confrontandosi con la sua storica assistente ha scoperto che lei a 20 anni era a Genova a manifestare, e questo confronto ha cambiato radicalmente la direzione di scrittura. Wendy Mcleod, invece, ha scritto una commedia noir, cattivissima, una cosa tipo Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo. A tutti e tutte abbiamo dato dei vincoli: un numero massimo di sei interpreti, la durata massima di un'ora, senza scenografia, solo degli oggetti e un ledwall che dà lo sfondo poetico, narrativo, ambientale. In questo senso anche la regia diventa una sfida trovandosi in queste condizioni.
Come è avvenuta la scelta delle registe e dei registi?
A parte Fausto Paravidino che si auto-dirige e Teodoro Bonci del Bene che ha tradotto e interpreta in forma di monologo il testo russo di Ivan Vyrypaev, sono tutte registe – e sono Thea Dellavalle, Mercedes Martini, Serena Sinigaglia, Giorgina Pi, Nathalie Fillion, Thaiz Bozano e Kiara Pipino. Professioniste in gamba che volevamo fortemente coinvolgere nelle attività del Teatro Nazionale. Hanno tutti approcci registici molto diversi che danno un movimento interessante al “flusso” di spettacoli.
Spettacoli che verranno presentati prima in “maratona” il 9 ottobre (nove spettacoli in dieci ore, dalle 14:00 alle 24:00, divisi tra le sale del Teatro Ivo Chiesa e il Teatro Gustavo Modena), poi singolarmente. Come mai la scelta di una maratona?
Perché abbiamo voluto fare una festa del teatro. In fondo, questo è un piccolo festival da vivere in modo totale. In questo momento in città ci sono 9 compagnie che stanno provando nelle sale del Teatro Nazionale, oltre 100 persone che si stanno dedicando a questa impresa. È molto bello. Abbiamo parlato a lungo delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo e credo che questo sia un segno concreto, un’azione con cui si dà lavoro agli artisti, alle artiste, alle maestranze. E poi ci piaceva l’idea di vedere tutto assieme, come un mosaico che si compone di tessere diverse. Magari quando ci troviamo di fronte a tutti questi spettacoli riusciamo a trovare nuove domande, nuove consapevolezze, nuovi dubbi. E ancora, ci piaceva che fosse un modo per stare insieme. Il teatro è politico, al di là dei contenuti e dei temi trattati, per prima cosa perché si sta insieme. È forse l'ultimo luogo in cui si incontrano comunità, si parlano, si ascoltano, condividono un'esperienza. Mi pare che sia una cosa importante da rivendicare.
Qui a Genova c’è una tradizione di teatro d'inchiesta, negli anni ‘60 e ‘70 Vico Faggi e Luigi Squarzina fecero Cinque giorni al porto, Il processo di Savona, Rosa Luxemburg, testi molto densi, combattivi. Noi non arriviamo a quell'altezza veramente straordinaria, ma proviamo a ritrovare questa attitudine.
Il teatro è politico, al di là dei contenuti e dei temi trattati, per prima cosa perché si sta insieme.