Evelina Rosselli nasce a Roma nel 1994.
Dopo aver conseguito con lode una laurea in filosofia nel 2017 presso la Sapienza Università di Roma, ha frequentato la Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma, diplomandosi in recitazione nel febbraio 2020.
Ha debuttato alla biennale di Venezia con lo spettacolo “Uno sguardo estraneo, ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda” per la regia di Paolo Costantini, vincitore del bando biennale college registi under 30.
Ha poi debuttato al teatro Vascello con “Error Materia” [che abbiamo recensito qui], uno studio sul Pinocchio di Collodi, scritto diretto e interpretato da lei, Caterina Rossi, Diego Parlanti, Michele Eburnea, una coproduzione ANAD e Teatro Vascello/la Fabbrica dell’Attore.
Nella sua formazione, incisivo è stato l’incontro con la scuola di Claudia Castellucci e con la Societas Raffaello Sanzio di Cesena.
Evelina, cosa è il teatro secondo te? Che rapporto hai con il pubblico e il palcoscenico?
Il teatro è uno spazio. Nello specifico uno spazio condiviso contemporaneamente e dal pubblico e dai perfomer. Sembra una banalità, ma non credo sia scontato, me lo ripeto spesso. Si tratta di una spazio di condivisione che si dispiega a livello geometrico: per arrivare a dare una definizione di cosa sia il teatro per me, questo mi sembra un buon punto di partenza, senza scendere in troppi psicologismi. Il teatro è quindi uno spazio condiviso, meglio, uno spazio-tempo condiviso; ed è per proprio per via di questa condivisione in presenza che secondo me non è possibile fare teatro in streaming, perché ci sono alcune cose che accadono tra gli esseri umani soltanto nella condivisione in presenza di uno spazio-tempo, e che attraverso uno schermo non sono possibili da replicare. Il palcoscenico senza pubblico perde vita: è vero, ci si fanno le prove, però non è per definizione possibile fare spettacolo senza pubblico. Anche questa può sembrare una cosa scontata, ma non lo è. Il pubblico di fatto è il vettore principale verso cui si direziona la rappresentazione, è il punto di riferimento da tenere costantemente a mente nella realizzazione di un'opera. Ho sempre concepito me stessa e i miei colleghi come tramiti, come mezzi portatori di corpo e voce, veicolati sempre verso un “tu”. Per cui il fine della rappresentazione si rivolge sempre verso chi si mette in ascolto e in osservazione. Si tratta a tutti gli effetti di un mestiere fondato sulla relazione.
Qual è la collaborazione artistica con registi e attori che più ti è rimasta impressa?
In Accademia abbiamo lavorato a molti spettacoli e tutti diversi fra loro. Abbiamo così potuto incontrare molti maestri, registi e attori dalle diverse provenienze culturali, ognuno portatore di una propria modalità di stare in scena o di concepire il teatro. Tra tutti, l'incontro con Valentino Villa è stato per me particolarmente incisivo. Pone molta importanza al rapporto con la pedagogia. Regia e pedagogia possono avere molto in comune, pur se restano due cose distinte. In comune però c'è la maieutica: la capacità di guidare l'attore affinché partorisca qualcosa, un atto, conducendolo all'interno di un processo psicofisico. È difficilissimo. Valentino Villa in questo senso è stato molto attento al rispetto delle nostre individualità. Al terzo anno abbiamo rappresentato un testo di Lagarce, “I Pretendenti”, un testo per diciassette attori che abbiamo portato in scena al teatrino studio Eleonora Duse, poco prima del Covid. Eravamo diciassette ragazzi stipati in una stanza di tre metri per tre, una stanza cubica piccolissima incastonata nel palco. Pazzesco, mai più possibile né pensabile una cosa del genere con l'avvento della pandemia e dei distanziamenti. Oltre tutte le esperienze fatte e i maestri incontrati in Accademia, significativa è stata l’esperienza vissuta nel maggio 2021 con alcuni miei compagni. Abbiamo presentato un progetto e vinto una produzione per uno spettacolo al teatro Vascello di Roma: si trattava di uno studio dal Pinocchio di Collodi. Abbiamo riscritto la favola, concentrandoci sugli aspetti meno noti e quindi forse più oscuri, ma non meno presenti all'interno della narrazione. Il titolo che abbiamo scelto per lo spettacolo è Error Materia. La favola è un luogo per me molto caro, perché fa riferimento a temi fondamentali quali l'immaginazione, la fantasia e sopra ogni cosa il mistero dell'immaginario collettivo. In occasione della produzione di Error Materia abbiamo collaborato in quattro e abbiamo condiviso regia, scrittura e interpretazione. Non è semplice combinare quattro teste. Ci sono voluti due anni, tra confronti, montaggi, smontaggi, prese di posizione e messe in discussione. Abbiamo avuto al fianco dei collaboratori forti, Camilla Piccioni al disegno luci e Filippo Lilli al progetto sonoro. Grazia a loro abbiamo scoperto quanto sia fondamentale e significativo a livello creativo ciò che apparentemente potrebbe definirsi "apparato tecnico". Questa è stata la nostra prima produzione dopo l’accademia. Abbiamo lavorato tra la presenza e l'assenza, alternando la condivisione tramite schermo in attesa di poterci poi vedere dal vivo. Lo spettacolo speriamo possa girare, sicuramente verrà ripreso questo aprile sempre al Teatro Vascello, che ci segue e supporta nel nostro percorso di ricerca.
Con “Uno sguardo estraneo (ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda)” di Paolo Costantini siete sbarcati alla Biennale di Venezia. Che effetto ti ha fatto partecipare ad un festival così prestigioso?
Nonostante il timore iniziale, l’ambiente che si è creato nel contesto di Biennale Venezia è stato veramente molto disteso. Lo spettacolo è stato vincitore del bando Biennale College registi under 30. In scena ci siamo io e un’altra ragazza, Rebecca Sisti, e si tratta un lavoro dalla natura performativa, per sua stessa definizione un lavoro ambiguo, nel senso più felice del termine; il linguaggio su cui Paolo ha voluto lavorare è poco esplorato, un'avventura che combina la potenza del gesto con quella della parola in modo inconsueto e incisivo. Credo sia stato proprio il rischio di inoltrarsi in un terreno inesplorato ad averci portati in cartellone al Festival, questo Luglio appena passato. Abbiamo avuto la fortuna di avere come tutor dei grandi nomi nel mondo del teatro contemporaneo, primo fra tutti Antonio Latella. Quindi se da un lato, in un primo momento, c'è stato sicuramente timore, d’altra parte, a livello sostanziale abbiamo incontrato degli esseri umani capaci di guidarci, accoglierci e condurci verso la messinscena finale nel migliore dei modi. Ho imparato quindi a demistificare queste figure. Certamente non bisogna sostituirsi ai grandi, ma allo stesso tempo neanche annullarsi di fronte alla loro esperienza e grandezza. La nostra è una società fondata sul giudizio: si valuta sé stessi in base a come ci disegnano gli altri. Alla Biennale il giudizio inibente da parte dei nostri tutor non c'è stato e abbiamo potuto essere noi stessi per ciò che siamo.
Che genere di teatro prediligi? Quali sono gli autori che più ti rispecchiano?
Riguardo gli artisti che prediligo o che hanno lasciato un segno, l'incontro con la Societas Raffaello Sanzio è stato significativo, sia a livello personale che culturale e artistico. L'opera di Romeo Castellucci ha inciso uno squarcio, perché lavora sul piano del simbolo e sulla potenza del mistero che può dispiegarsi sulla scena. L'opera di questo artista è accurata, profonda, affronta temi assoluti quali la violenza, la morte, il tempo, riproponendoli in chiave simbolica e, appunto, misteriosa. Indubbiamente anche il lavoro di Chiara Guidi, che tratta spesso favole nel suo teatro infantile, ha segnato una svolta non indifferente nella mia formazione. Le sue opere sono la testimonianza scenica di quanto complesso, profondo e articolato possa essere il mondo interiore del bambino. Non posso non menzionare con loro Claudia Castellucci, una pedagoga incredibile che ho avuto la fortuna di incontrare e che ha lasciato un segno indelebile con la sua opera e i suoi insegnamenti. Tra gli altri autori significativi, e per motivi molto diversi, rientra anche Milo Rau, anzi direi che si inserisce a gamba tesa. Se Castellucci mi ha segnata a livello estetico e inconscio, Rau lo ha fatto in senso politico e razionale. Una forma di attivismo messo in arte e che denuncia il male subito dalle minoranze del mondo. Sono moltissimi gli autori che mi affascinano e di molti sono ancora alla ricerca, ma sicuramente Castellucci e Rau sono tra i più rappresentativi per me.
Come hai attraversato questo momento di pandemia e di chiusure dei teatri?
Ho vissuto il primo momento di chiusura come una rivelazione positiva, nel momento in cui era tutto fermo per tutti. Il teatro e la vita, l'arte e vita sono abbastanza interconnesse, non c’è una netta separazione, questo segna sia la bellezza che il peso del nostro lavoro, del nostro pensiero sul mondo. Stare a contatto con il mondo nella modalità del lockdown, per cui tutto si è fermato permettendo all'ecosistema soppresso di tornare ad esistere, è stato bellissimo. All'apparenza Nessuno faceva niente e Nessuno poteva produrre freneticamente. È stata una liberazione sentire i rumori delle piante, del Tevere, degli alberi e degli animali che li popolano, che a Roma non si sentono praticamente mai: è stato molto bello per me stare in contatto con quella dimensione, per cui era la natura a dettare legge. Ho continuato durante tutto il lockdown a sentirmi con i miei compagni e ad ogni incontro presentavamo nuove proposte di scrittura. In quel momento stavamo ancora scrivendo Error Materia, ma ognuno lavorava da casa. Si sceglievano dei temi da affrontare di volta in volta e si riscrivevano in ascolto con le esigenze presenti, avendo come base condivisa la sensazione di solitudine che ha permeato tutto il periodo. Con la ripartenza, reingranare si è rivelato più traumatico: bisognava ricominciare a produrre e velocemente. Il rischio di lavorare velocemente per produrre il prima possibile sta nel problema della fretta e nella frenesia: due componenti che spesso confliggono con i tempi della creazione di un'Opera, che possono essere anche molto lunghi. Quando i tempi di creazione vengono contratti il processo creativo può risentirne. Abbiamo cercato di portare dentro di noi la modalità dilatata della prima fase di chiusura, semplicemente a livello interno, per non affrettarci troppo rischiando di diventare superficiali.
Che cosa ti piacerebbe fare in un futuro prossimo?
Una delle idee che mi piacerebbe sviluppare spero assieme ai compagni (abbiamo da poco deciso il nostro nome. Ci chiameremo UROR Teatro, dall'etimologia latina che sta a significare "io brucio") è quella di allestire non solo degli spettacoli, ma anche e soprattutto uno spazio a Roma. Uno spazio che sia un centro, un luogo attorno a cui ripopolare la comunità che con il Covid è andata dispersa. Sarebbe un sogno dare vita ad un centro polivalente, magari in uno di quei tanti spazi di Roma in stato di abbandono (penso a qualche ex fabbrica), da gestire come uno spazio di formazione, ma non solo per attori, ma anche per gli anziani, per i bambini, per chi non fa teatro ma che è semplicemente mosso da curiosità verso qualcosa che non si conosce. Uno spazio capace di fondere pratica e teoria e che permetta di studiare, confrontarsi e mettersi in ascolto, e che permetta anche di "oziare", nel senso più alto del termine. Sarebbe bello infatti che potesse esserci anche un bar. Sarebbe parte della costruzione di un luogo di aggregazione che sia anche conviviale per chi lo abita. Oltre questo grande sogno, mi piacerebbe fare qualche esperienza all’estero, in Francia, in Belgio o in Olanda: sono luoghi dove il teatro di comunità è molto sviluppato. Un polo dove mi sono ritrovata è la Societas Raffaello Sanzio a Cesena, un modello di scuola veramente particolare, desueto, fuori dal comune. Sarebbe bello andare al profondo delle questioni, anche filosoficamente e ritornare a Cesena per studiare ancora.
Quali sono le difficoltà che deve affrontare una giovane attrice nell’affacciarsi al mondo del teatro?
Quando si tratta di affacciarsi nel mondo del lavoro alla ricerca di una propria identità, credo che la questione non sia semplice: trovo sia tutto più difficile là dove si cerca una definizione univoca di se stessi in senso artistico. Per definirsi occorre “rendersi conto della cifra a cui si appartiene” e non è affatto semplice, ci sono di diverse correnti artistiche, e quante! Tra la performance, il teatro fisico, il circo, il teatro di prosa, la nomenclatura è infinita… a volte non si sa neanche da dove cominciare. Per cercare il proprio posto nel mondo si potrebbe partire con l'intercettare gli spazi che ospitano le dinamiche artistiche più interessanti per ciascuno. Capire in quale spazio ci si trova più a proprio agio, con quali persone (soprattutto) e per raccontare cosa. Non è semplice all’inizio, non è semplice per me tutt'ora per certi versi. Il punto credo stia nel trovare sempre la propria comunità, il proprio luogo di incontro. Ci sono tantissimi poli in Italia, a Roma innanzitutto, e penso possa aiutare, finché si può fare, provarli tutti o quanti più possibili, non vincolandosi soltanto ad una realtà ma cercando di spaziare il più possibile e, rimanendo sempre in contatto con sé stessi, capire come ci sente onestamente all'interno di ogni realtà. Mi ha colpito tantissimo l’immagine del Settimo Sigillo di Bergman, in cui la famiglia di attori girovaga con il carretto. Si tratta a tutti gli effetti di saltimbanchi. Cerco sempre di ricordare che è anche da lì che proveniamo. Mi piace pensare di poter creare la propria famiglia artistica, e stiamo cercando di fare il possibile affinché accada e perduri nel tempo.