«Da quant’è che io e te abbiamo smesso di ballare insieme? Da quant’è che abbiamo smesso di capirci?»
Una domanda che nel momento stesso in cui viene pronunciata porta con sé la dolorosa e amara risposta: da tanto. Perché dietro a quelle parole piene di voglia di ritrovarsi si nasconde l’ormai consapevolezza del tempo trascorso, dei cambiamenti e dell’impossibilità di tornare indietro.
A meno che…
Avremo ancora l’occasione di ballare insieme fa luce proprio su questo “a meno che”, su questa alternativa, su questo spiraglio di speranza che simultaneamente contiene e combatte il tempo. Lo combatte senza alcun intento predatorio o voglia di rivalsa; piuttosto il lavoro di Deflorian/Tagliarini presente al Romaeuropa Festival 2021, depone ogni arma avanguardistica, lasciando che la lotta contro il tempo tramuti nella lotta con il tempo: infatti nel corso dell’ora e quaranta di spettacolo assistiamo a un continuo incontro di dimensioni temporali diverse, attraverso la contemporanea presenza di tre coppie, facenti parte di tre generazioni differenti: il duo storico composto da Daria Deflorian e Antonio Tagliarini incontra «una coppia di trentenni (Francesco Alberici e Martina Badiluzzi) e una di quarantenni (Monica Demuru ed Emanuele Valenti) […] anche se la coppia è una sola, nello scorrere degli anni». Di una verità spiazzante ed emozionante i sei interpreti, che presenziano sulla scena completandosi l’un l’altro, facendo emergere le peculiarità attoriali ed esperienziali di ognuno.
Nessun artificio scenotecnico sorregge i diversi piani temporali, che anzi abitano la scena insieme, senza ignorarsi, bensì sfiorandosi, contenendosi e giocando tra essi. Ogni Lei, che in un ulteriore sfilacciamento identitario è Daria Deflorian nelle tre tappe di vita, Giulietta Masina, Amelia di Ginger e Fred di Fellini e quindi anche un po’ Ginger, e ogni Lui, giocato sull’individualità collettiva del triplice Antonio Tagliarini, di Marcello Mastroianni, di Pippo di Ginger e Fred di Fellini e quindi ovviamente anche un po’ di Fred, mostrano filamenti di ricordi, non solo attraverso il racconto, ma anche attraverso azioni vere e proprie, piccoli sketch che, forti della loro nitida presenza nella memoria, fuggono dall’immaginifico ed entrano a gamba tesa nella scena del mondo.
Tracce che si fanno reali e concrete, a cui si crede- anche se incredibili- perché viste con i propri occhi senza alcuna mediazione. Noi siamo lì e partecipiamo ai loro ricordi. E non è forse questo ciò che accade nei musei? Non è forse questo il senso dell’archeologia? Sembra allora che, tra le innumerevoli rimandi presenti (non solo quelle palesi che citano l’universo cinematografico felliniano, ma anche quelle riprese dalla storia del teatro e della danza, da Pirandello a ovviamente Pina Bausch- giusto per citarne alcune), trovi spazio, in modo tanto costante quanto latente, il pensiero foucaultiano. Del resto fin dalle prime battute lo spazio scenico viene esplicitamente descritto nelle sue caratteristiche museali, luogo di un tempo passato che viene riattivato grazie alla presenza presente. In Avremo ancora l’occasione di ballare insieme c’è un pensare archeologicamente, che porta a galla una sorta di messinscena di un archivio vivente. Vivente perché è vivo, non solo perché fatto di materia umana, di esperienze di vita, di carne e spirito; vivente perché vive e si trasforma davanti ai nostri occhi, perché è «un insieme [di eventi] che continua a funzionare, a trasformarsi attraverso la storia, a dare possibilità di apparire ad altri discorsi». In quel «Da quant’è che io e te abbiamo smesso di ballare insieme, di capirci?» c’è il tempo trascorso, c’è una richiesta di comprendere le ragioni che portano a un allontanamento. Si interroga il presente attraverso il passato e sulla scena c’è una continua ritualizzazione della storia che non vuole essere riprodotta identica a se stessa, ma ri-vive nelle differenze, nelle sfumature di senso, di tempo e di luogo.
Dalle poltrone del Teatro Argentina, senza smuovere alcun apparato tecnologico digitale, ma solo attraverso gli elementi primari e più arcaici della tecnica attoriale (parola e gesto), sembra di muoversi all’interno di un gigantesco album di fotografie animate che, per sua natura, mostra la durata, il distacco e la trasformazione del percorso di vita delle persone. È un album sui generis, che non ha alcun appiglio cronologico, ma che vive grazie a fulminei lampi di luce su quel o su quell’altro momento, su quel o quell’altro ancora ricordo.
Alla fin fine è il gioco della mente umana che seleziona per assonanze del tutto personali, esternamente prive di logica, e che scava e pulisce minuziosamente con un pennellino dalla punta sottilissima l’oggetto del suo ricordo: ne derivano monologhi e dialoghi di una potenza comunicativa inestimabile, che si abbandonano ai dettagli apparentemente più marginali ma che, nel loro insieme, nella loro ricostruzione archeologica di primo livello, assumono un senso profondo in quel «guazzabuglio carico di storie».
Ogni micro storia, densa di memorie, sogni e difetti del passato, prende forma assumendo i caratteri di un ballo, non sempre danzato, ma sempre agito, fatto, vissuto. Del resto la battuta felliniana da cui proviene il titolo dello spettacolo apre le porte all’equivalenza “ballare è agire”: agire nell’esperienza, agire insieme, comprendersi. È la relazione umana al centro del grande ballo della vita: causa e sintomo di quel lento, dove i corpi si incontrano, trovano la metà della propria coppia ed entrano in quell’intimità fatta di contatto, parole sussurrate e sogni condivisi.
È un’intimità viscosa e corposa, un condensato di anime, abiti ed esperienze. Tuttavia Deflorian/Tagliarini mostrano quanto l’alto grado di vischiosità sia solo apparente: i rapporti, anche quelli più sugellati e sigillati, sottostanno alla dura legge del cambiamento e nella durata rischiano di sfaldarsi. Non esenti al tempo, ma più resistenti, alcune relazioni, anche nei momenti più bui, sono tenute insieme da una luce tanto minuscola, quanto sempre presente: svetta in fondo al palco al centro quella ghost light, accesa nei teatri a fine serata per non abbandonare all’oscurità lo spazio ormai vuoto: uno spirito benigno che rende il buio più amico, che crea un’atmosfera di penombra in cui intravedere gli ostacoli e che, da quell’unico nucleo luminoso, tiene insieme i fili delle cose. Avremo ancora l’occasione di ballare insieme può apparire allora come una costellazione che si orienta e si riconosce grazie alla ghost light, stella Polare dello spazio teatrale e vitale di ognuno.
Ecco, lì all’Argentina, gomito a gomito con il vicino di poltrona, sembrava di essere in una di quelle serate limpide, dall’aria secca e senza vento, quando i paesaggi celesti si possono ammirare senza l’uso del telescopio. E anche quando l’occhio nudo non percepisce ciò che il tuo compagno di osservazione sostiene di aver visto, il desiderio di vedere, di condividere quello spettacolo, fa aumentare a dismisura la concentrazione.
Questo è il potere dell’immaginazione: lo sguardo fisico, provato dall’oscurità, attiva quello sguardo interno e mentale che permette di percepire ciò che la vista non è in grado di vedere.
Questo è il potere del blackout. In Avremo ancora l’occasione di ballare insieme il blackout è una scelta, frutto di una discussione, un’alternativa ponderata che lascia spazio all’inaspettato: tra le maglie del buio che impone di fermarsi, attendere e ascoltare (e non solo più guardare) avviene il ri-conoscimento, quel ri-trovarsi che si era temuto di aver perso per sempre. L’occhio- tanto degli attori quanto degli spettatori- si abitua a quell’ambiente totalmente oscuro e, dopo un attimo di smarrimento, è in grado di percepire non solo le sagome, ma anche e soprattutto la verità umana contenuta in quei contorni. Abbandonarsi alla visione notturna rimette in ballo, letteralmente e metaforicamente, lasciando che le incursioni nell’onirico, lungi da qualsiasi intento surreale, si concretizzino sulla scena, mescolandosi al dato reale e presente. Per dirla con le parole di Deflorian/ Tagliarini,
«in una finzione c’è tanta di quella verità…».
Diventa quindi ancora più motivata la scelta di presentare lo spazio scenico al contrario: sul palco vediamo i camerini e il fondale, coperto dalla magnificente tenda rossa del sipario, diviene la quarta parete. Lì dietro, pronti ad assistere a qualcosa, ci sono loro, riflesso di noi, pubblico reale che si trova a dover interrogarsi anche sulla propria condizione di spettatore, immaginando se stesso, con le proprie aspettative, al di là di quel fondale. E come Pippo e Amelia si ri-incontrano a distanza di anni, come Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si ri-conoscono tra loro attraverso il tempo, noi siamo portati a ri-trovarci passando attraverso il teatro, come se potessimo alzarci in piedi, percorrere il palco e scostare il sipario. Si apre il sipario e ci siamo noi: c’è il mondo, la vita, la realtà. Quella realtà complicata che la finzione vera del teatro rende più accogliente e affrontabile. Si crea un punto di fuga immaginario e lontanissimo, reso visibile dai momenti in cui gli attori, volgendo le spalle al pubblico “vero”, offrono la propria presenza a quell’ “aldilà” che non esiste, mettendo a nudo le proprie ambizioni, paure ed entusiasmi dell’andare in scena.
C’è la fragilità. Avremo ancora l’occasione di ballare insieme– una delle tre produzioni (insieme a Sovrimpressioni e al documentario realizzato con Jacopo Quadri Siamo qui per provare) che ruota attorno a Ginger e Fred di Federico Fellini- scandaglia la fragilità umana nel tempo, delle relazioni, della vita, da quella esuberante e a tratti ingenua della giovinezza a quella piena di paura e vergogna della vecchiaia; ma c’è anche la fragilità del teatro.
Quel teatro che l’anno e mezzo di pandemia ha messo a dura prova; quel teatro che non ha avuto l’occasione di ballare insieme per un lungo periodo; quel teatro che ha vissuto un blackout per quasi tre stagioni. Eppure molti teatri nel mondo durante la pandemia hanno acceso quella piccola ma potente ghost light: simbolo di speranza, Deflorian/Tagliarini la pongono al centro della loro balera stanca ma resiliente, rischiarando quel mondo che la stessa Daria Deflorian definisce nella battuta “Quanta bellezza che respiro, che futuro!”.
Rimettendo in scena il passato nel presente, l’aria che si respira in Avremo ancora l’occasione di ballare insieme sa di futuro. Quel cumulo di ceneri posa su una brace ancora ardente, destinata a far risorgere la fenice. Con colori diversi forse, ma ancora piena di voglia di ballare.
un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
liberamente ispirato al film Ginger e Fred di Federico Fellini
interpretazione e co-creazione: Francesco Alberici, Martina Badiluzzi, Daria Deflorian, Monica Demuru, Antonio Tagliarini, Emanuele Valenti
aiuto regia e collaborazione alla drammaturgia: Andrea Pizzalis
consulenza artistica: Attilio Scarpellini
luce: Gianni Staropoli e Giulia Pastore
scene: Paola Villani
suono: Emanuele Pontecorvo
costumi: Metella Raboni
direzione tecnica: Giulia Pastore
foto e video di scena: Andrea Pizzalis
cura e promozione: Giulia Galzigni / Parallèle
amministrazione: Grazia Sgueglia
Foto: Andrea Pizzalis
un ringraziamento a Lorenzo Grilli per il training tip tap e a ziamame per la collaborazione ai costumi
durata prevista: 1h40
una produzione: Associazione culturale A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Metastasio Prato
coproduzione: Comédie de Genève, Odéon – Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, Théâtre populaire romand – Centre neuchâtelois des arts vivants, Théâtre Garonne – scène européenne et Centre Dramatique National Besançon Franche-Comté
con il sostegno di Interreg France-Suisse 2014-2020, programma europeo di cooperazione transfrontaliera nel quadro del progetto MP#3, e del Romaeuropa festival
residenze: Ostudio Roma, Théâtre Garonne – scène européenne