“Chi ha ucciso mio padre” di Deflorian/ Tagliarini. La rivendicazione di uno spazio di esistenza

Ogni grande guerra porta nomi e cognomi. Ogni battaglia è ricordata con i volti per lo più dei carnefici e, più raramente, delle vittime, queste ultime di solito raggruppate in numeri privi di identità. Sono gli scontri della Storia, quelli che si studiano nei manuali di scuola o di cui si sente parlare al telegiornale durante l’ora di cena.

Esistono però delle battaglie più piccole, agli occhi dell’evoluzione umana forse insignificanti, ma che hanno la medesima- se non più forte- urgenza di emergere. Esistono conflitti privati, biografie senza eserciti che lottano di fronte a una schiera infinita, eterna e indefinita di comandi e comandanti.

Chi ha ucciso mio padre, tratto dall’omonimo testo del giovane Édouard Louis, senza alcun timore, invece definisce comandi e comandanti. Punta il dito contro chi, usando la sola arma del potere, priva le persone della propria esistenza. Fa nomi e cognomi: Jacques Chirac, Xavier Bertrand, Nicolas Sarcozy, Martin Hirsch, François Hollande, Myriam El Khomri, Manuel Malls, Emmanuel Macron. E come ogni grande guerra che si rispetti riporta giorno, mese e anno delle singole battaglie.

I vincitori, che solo apparentemente cambiano generalità nel corso della storia attuale e personale di Édouard Louis, sono sempre gli stessi, immortali ed eterni: qui, al Teatro India, il primo, il secondo, il terzo e l’ultimo colpo vengono inferti dal potere politico, quella politica che rende chi la fa comodo sulla propria poltrona a emanare cose senza che queste stesse cose lo riguardino in prima persona. Chi ha ucciso mio padre è

“la storia del corpo che accusa la storia politica”.

È la storia di quella politica in cui i dominanti sono protetti non solo dal loro ruolo, ma anche da quel substrato culturale che ristagna in ogni dove.

Eppure Chi ha ucciso mio padre, primo spettacolo in cui Deflorian/ Tagliarini curano esclusivamente regia e adattamento italiano del testo di Louis, arriva alla politica, smarcando qualsiasi evento o manifestazione pubblica, dribbla i grandi fatti che riempiono i salotti televisivi e non accenna minimamente ad alcuna vicenda che generalmente diviene “caso” se fa share. Ma il caso c’è e c’è eccome.

È il caso di un padre e di un figlio. O forse sarebbe meglio dire “Il caso di un padre e il caso di un figlio”. Perché in Chi ha ucciso mio padre le vite naturalmente intrecciate di questa coppia si sfiorano senza toccarsi mai. Francesco Alberici dà voce a quel figlio che altri non è che la versione che Édouard Louis accorda a se stesso nel suo libro. Ciò che ne deriva, lontano da essere un tentativo di appropriazione di un’esistenza altrui, è piuttosto un far scorrere quella stessa esistenza tra le piegature della propria pelle, lasciando che l’intento rappresentativo si tramuti in racconto esperienziale. Non è il racconto della vita di Louis o di Alberici, quanto piuttosto una rivelazione dello spazio personale che ognuno di noi, giorno dopo giorno, rivendica.

Alberici è solo, solo in un ambiente che ricorda uno di quei garage o magazzini sotterranei dal soffitto basso, che schiaccia e rende tutto più claustrofobico. Ad aumentare questo senso di “vuoto chiuso”, nella scatola nera della sala B del Teatro India solo sei plafoniere che scendono al centro della scena dall’alto e una serie di sacchi della spazzatura condominiali. Quelli grandi, dove si gettano le cose alla rinfusa, senza alcuna logica; quelli neri, resistenti a pesi specifici notevoli e dall’opacità al 100% che impedisce di vederne il contenuto. In genere si usano per buttare ciò che proprio non si vuole più, ciò che deve rimanere per sempre lontano dalla vista. Difatti inizialmente se ne percepisce solo il suono: un’eco profonda causata dai calci di Alberici. Risuonano di un rumore tondo, vibrante, unico elemento che ne fa intravedere il contenuto. In quei sacchi neri c’è la storia di quel padre e di quel figlio, quella storia che intreccia ricordi, voci e volti di chi è intervenuto nel loro cammino. Ci sono riflessioni, sensazioni e stati d’animo che rinchiusi da un nodo inestricabile alle estremità di quei sacchi possono venir fuori solo grazie a una lacerazione. Serve una ferita per parlare, per avere il coraggio di parlare e fare nomi e cognomi.

Foto di Luca Del Pia

Qui la ferita c’è e nel corso dell’ora e mezzo di monologo diviene sempre più profonda: i lembi si allontanano a tal punto da non potersi più rimarginare. Questo taglio, che all’inizio sembra riguardare solo il rapporto tra padre e figlio, assume dimensioni sempre più grandi, accogliendo al suo interno le complicate dinamiche familiari, le difficoltà economiche e professionali, le credenze culturali e le infauste scelte politiche.

La voce di Alberici, profonda e meravigliosamente corposa, viene investita da quell’assenza del padre che si fa presenza. Una presenza invisibile, ma potente, violenta ma con dei tratti di quella tenerezza genitoriale che, oppressa dagli stereotipi culturali, trova la via d’uscita solo quando difendere il figlio viene sentito come un obbligo morale. Alberici si confessa di fronte a lui, cerca un contattato impossibile da instaurare, si rivolge al vuoto riempiendolo di materia umana: ne descrive i difetti, ricordando aneddoti ed episodi di vita domestica fatti di sofferenza e qualche momento sorridente. Però, alla fine, lo comprende. Il tempo trascorso e uno sguardo più adulto reso ancora più indulgente dalla distanza riscrive il modo di vedere quel padre schiacciato dall’etica ferrea e senza alternative imposta dalla norme culturali, prima fra tutte quella che vuole la rettitudine e l’autorevolezza sinonimo di maschile. I “verdetti” non lasciano spazio a interpretazioni e seguirli pedissequamente è ciò che un uomo “degno di questo nome”, un uomo riconosciuto come tale dalla società, è obbligato a fare; anche a costo di distogliere lo sguardo dal figlio che balla vestito da femmina.

Piccola parentesi per sottolineare l’aspetto anti mimetico dello spettacolo: Alberici racconta a più riprese di quel suo travestimento, lo danza e lo vive sulla scena, ma anche quando parte Doctor Jones degli iconici Aqua non c’è nessun vestito da donna, nessun tentativo di imitare l’universo femminile. C’è piuttosto un uomo che trasforma quella spudoratezza data dall’ingenuità infantile in semplice e naturale modo di stare al mondo secondo la propria sensibilità.

Forse anche perché i verdetti di ieri non sono i verdetti di oggi. O meglio, i verdetti di ieri sono alcuni dei verdetti di oggi, nascosti dietro una patina edulcorata. Sono semplicemente meno lampanti. Nella società odierna dove si insinuano i verdetti?

Chi ha ucciso mio padre tratta di questo: fa luce sui corridoi bui della roccaforte dove continua ad abitare il razzismo, quel razzismo che- come riportano le parole di Alberici in apertura del monologo- per Ruth Gilmore è

“l’esposizione di certe popolazioni a una morte prematura”.

C’è razzismo dove c’è oppressione politica e sociale; dove non c’è sostegno, non c’è protezione per le micro comunità, ma, anzi, c’è esibizione delle differenze. E anche chi- come il padre di Louis- vive una vita all’insegna della norma nella volontà di essere accettato dalla società, se non siede sul gradino più alto del podio (lì dove si prendono indiscriminatamente decisioni politiche), prima o poi viene dimenticato. E muore. Per sopravvivere all’oblio di chi dovrebbe proteggerci c’è solo una strada: dimenticare di essere dimenticati.

Édouard Louis, nel corpo di Francesco Alberici, parla per non far dimenticare la storia di quel padre che, dopo averlo dimenticato per anni, si ritrova oggi ad essere dimenticato. Un gioco di parole che non ha nulla di giocoso. Ma va oltre: costruisce un j’accuse estremamente personale che diviene un pamphlet politico che parla a tutti e di tutti, nessuno escluso.

Deflorian/Tagliarini, per la prima volta di fronte a un testo altrui, traspongono Chi ha ucciso mio padre sulla scena (come anche lo stesso Louis ha fatto nella versione diretta da Ostermeier, ne abbiamo parlato qui) lasciando che la voce di uno sia la voce di tutti; che i tratti biografici, ingiuste ferite o consapevolezze gioiose, del protagonista siano il pretesto per un manifesto per l’umanità; che le vicende politiche francesi siano sovrapponibili a quelle di altri Paesi. È il mondo globalizzato, è la mondializzazione con i suoi pregi e i suoi difetti, con le sue incoerenze, che, nel tentativo di rendere tutto potenzialmente volto alla costruzione di legami, aiuta lo sfaldamento dei legami.

Ed ecco che ritorna l’assenza: «a volte la pelle dei due si tocca, entrano in contatto ma anche allora, restano l’un l’altro assenti. Il fatto che sia solo il figlio a parlare è una cosa violenta per entrambi: il padre è privato della possibilità di raccontare la propria vita e il figlio vorrebbe una risposta che non otterrà mai». Una dimensione di doppia segregazione che assomiglia a quella della comunicazione mediatica attuale, fatta di legami assenti, di conversazioni con simulacri su uno schermo.

Ma la scrittura di Édouard Louis, il pensiero registico di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini e l’interpretazione di Francesco Alberici rendono visibile l’invisibile, danno carne e volume a chi è troppo lontano, disegnando l’esistenza di chi c’è e di chi non c’è attraverso la vocazione e la narrazione della loro storia.

Chi ha ucciso mio padre attraverso un racconto personale parla dell’Altro, che è Louis, il padre di Louis, Alberici, io, tu e tutti noi, che proviamo quel sentimento di estraneità nei momenti di prevaricazione.

Chi ha ucciso mio padre non è un dia-logo con un padre che non c’è. Chi ha ucciso mio padre è un emozionante “monologo in relazione” dove amore e politica sono tessere di uno stesso mosaico. Perché

“La tua vita prova che non siamo ciò che facciamo ma che al contrario siamo ciò che non abbiamo fatto perché il mondo, o la società, ce l’ha impedito”.

Ci ha impedito anche di amare.


Chi ha ucciso mio padre

testo di Edouard Louis ©
regia Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
adattamento italiano Francesco Alberici, Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
collaborazione all’adattamento Attilio Scarpellini
con Francesco Alberici
assistenza alla regia Chiara Boitani
collaborazione artistica Andrea Pizzalis
Luci Giulia Pastore
Suono Emanuele Pontecorvo
Cura e promozione Giulia Galzigni/ Parallèlle
Amministrazione Grazia  Sguegllia
Una produzione A.D.,Teatro di Roma. Teatro Nazionale, Emilia- Romagna Teatro Fondazione, TPE- Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi, FOG Triennale Milano Performing Arts

1 commento

  1. Il testo è complesso ma l’attore /protagonista riesce a renderlo leggibile grazie alla sua interpretazione magistrale che lascia un segno profondo in ogni spettatore

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