Una danza dello stato eccitato: l’Inferno di Roberto Castello è qui.

Una delle scene più ricordate di 2001 Odissea nello spazio è quella del risveglio delle scimmie di fronte a un monolite nero. Puro concentrato di energia proveniente da una qualche forma aliena, il monolite simboleggia il progresso, in grado di far uscire i primati dalla condizione di animalità per farli approdare a quella di essere umani. Con tutte le conseguenze- positive e negative- del caso.

Ora, se la rappresentazione di Stanley Kubrick risale al 1968, che ne è di quel parallelepipedo nero, che tanto spaventava e affascinava al contempo, oggi, nella società del nuovo millennio?

Sospeso e fluttuante nell’aria quel monolite, in Inferno di ALDES – Roberto Castello, assume i contorni di un frigorifero rosso, uno di quelli dall’aspetto vintage che tanto vanno di moda nelle case odierne. Non è più il progresso il referente primo dell’oggetto, o meglio, non lo è direttamente: quel bel frigorifero rosso scintillante, dagli angoli smussati, è emblema della società capitalista in cui viviamo, che ha bisogno di un’immagine attorno alla quale raccogliere i consumatori, che necessita delle mode e delle tendenze per esistere. Senza entrare in riflessioni socio-economiche profonde, quel che emerge dalla scatola nera del Teatro India durante il debutto di Inferno ospitato dal Romaeuropa Festival, è la sensazione di trovarsi di fronte a quella levigatezza di cui parla Byung-Chul Han (La salvezza del bello, 2019), che riguarda tanto l’aspetto esteriore delle cose, quanto la comunicazione e le esperienze che ne derivano: «È ciò che accomuna le sculture di Jeff Koons, l’iPhone e la depilazione brasiliana, […] [incarnando] l’attuale società della positività».

L’Inferno in cui siamo stati trasportati è positivo. È bello, sorridente, privo di negatività e colorato. Non sono gli inferi della tradizione, non hanno nulla a che fare con i gironi infernali danteschi, non sono giù, in basso, sotto terra. L’Inferno che viene proposto è qui, nel nostro orizzonte di sguardo: è un paesaggio che conosciamo e riconosciamo con facilità, perché è ciò che viviamo quotidianamente. È il regno del narcisismo, della prestazione individuale: è ciò che Maura Gancitano, con un riferimento diretto alla società dello spettacolo di matrice debordiana, chiama “società della performance”, «[…] una società che divora tutto, rende tutto commercializzabile […]. E che soprattutto scardina il meccanismo centrale dello spettacolo, ossia la presenza da una parte degli attori e dall’altra degli spettatori. Oggi non esiste più il diaframma che separava la platea dal palco: oggi esistono solo performer».

Ciò che conta sono i numeri e la performance è ciò su cui si fonda il rapporto sociale tra le persone.

Nell’Inferno pensato da Roberto Castello, che poi non è altro che l’estensione del nostro inferno invisibile e levigato, vivono sei corpi, sei performer che nel corso dei sessantacinque minuti danno prova delle loro abilità, della loro resistenza, della loro infinita energia. In poche parole, si mostrano non tanto in quanto individui, quanto piuttosto come progetti, prestazioni e performance: mostrano e dimostrano. Con ciò non si vuol dire che venga meno il lato umano dei danzatori, che, anzi, nei loro corpi così diversi tra loro portano ognugno una propria storia. Più che altro, soprattutto nei momenti di maggiore intensità ritmica, le storie vengono completamente sopraffatte dal fare: fare tanto, fare bene e soprattutto fare al meglio delle proprie capacità.

Se all’inizio tale tensione per essere la versione migliore di sé induce i danzatori a presentarsi attraverso frasi danzate riconducibile a un vocabolario di movimento piuttosto astratto vicino al panorama della danza contemporanea, mentre sullo sfondo una video proiezione mostra una landa desolata che sussulta, nel corso dello spettacolo i riferimenti pop aumentano a dismisura divenendo ponte diretto tra noi e loro: di nuovo, niente più diaframma, quei performer siamo noi. Martina Auddino, Erica Bravini, Jacopo Buccino, Riccardo De Simone, Giselda Ranieri e Ilenia Romano non con la loro danza, bensì con il loro modo di danzare incarnano quel narcisismo tanto nascosto quanto onnipresente che- recita la sinossi dello spettacolo- «spinge a fare ogni sforzo per apparire ogni momento più bravi, più giusti, più belli, più forti, più attraenti, più responsabili, più umili, più intelligenti». Sempre di più e sempre più rispetto a qualcun altro e anche e soprattutto rispetto alla propria asticella individuale.

Con una gestualità danzata proveniente dall’universo disco, con suoni ritmatissimi da percussioni solo vagamente tribali, con delle reminiscenze del mondo delle urban battle o ancora con una danza che sfonda la porta dell’immaginario televisivo, i sei eccellenti danzatori si inerpicano in trick, acrobazie e tecnicismi che strizzano l’occhio a generi di danza diversi (dalla danza classica a quella hip hop), tanto veloci nell’apparire, quanto veloci nello scomparire. Le immagini, fatte di entrate e uscite, di spostamenti nello spazio e di incastri tra gli interpreti non hanno mai tempo di sedimentarsi nella mente dello spettatore, il quale non fa in tempo a pronunciare un “wow”, che subito qualcos’altro si piazza davanti alla sua direttrice di sguardo. Del resto è il modo di visione che ci ha imposto la televisione: in assenza di telecomando sottoposto alla furia del pollice opponibile, qui lo zapping non è comandato da nessuno e la successione di immagini è talmente prorompente che si trasforma in una sovrapposizione di sensazioni di stupore e meraviglia.

È come guardare i fuochi d’artificio: a cadenza lenta nel video all’inizio dello spettacolo, alla fine si mostrano nel movimento carnale dei corpi nella loro bellezza, perché sorprendenti. Sorprendenti sia nel senso di inaspettato che estensivamente nel senso di eccezionale.

Velocità, precisione, abilità tecniche ed energia. Quel puro concentrato di energia che in Stanley Kubrick era rappresentato dal monolite nero, passando per il frigorifero rosso, per i fuochi d’artificio e per opere d’arte museali che prendono vita e si danno alla fuga, arriva a condensarsi i quei sei corpi, tanto diversi, quanto umani.

Allora non ci resta che, attraverso di loro, riflessi incarnati del nostro quotidiano “Quantified self”, prendere atto che «L’inferno è qui, e assomiglia molto al Paradiso».

Inferno, ALDES- Roberto Castello al Romaeuropa Festival. Ph: Piero Tauro
Inferno, ALDES- Roberto Castello al Romaeuropa Festival. Ph: Piero Tauro

Una piccola nota a margine.

C’è una frase di un testo di un brano degli Afterhours, celebre gruppo rock italiano, che recita “Eroe del mio inferno privato, sei un giro di routine. Indossi il vuoto con classe…è tutto ciò che avrai”. Al di là delle interpretazioni possibili, più o meno romantiche, dopo aver assistito a Inferno di Roberto Castello, viene da chiedersi se quell’eroe in fin dei conti non siamo proprio noi, nella nostra quotidianità così patinata di bellezza e levigatezza. Di vuoto, in una parola.

E qui mi ricollego per concludere al già citato Byung- Chul Han, che inscrive nell’attuale società egoriferita un indebolimento relazionale intrinseco, quando dice «i sentimenti sono narrativi, le emozioni sono impulsive. Né le emozioni né le eccitazioni dispiegano uno spazio narrativo. Il teatro degli stati eccitati non racconta, piuttosto viene scaricata direttamente sulla scena una massa di eccitazioni. […] Sia le eccitazioni che le emozioni sono espressione di un soggetto isolato, monologico».

Ecco, l’Inferno rappresentato da Roberto Castello pare mettere in scena proprio quel teatro degli stati eccitati. Ma chi è seduto in platea, per quanto vicino all’esperienza performativa, ha l’onore di vedere il proprio inferno privato sotto forma di danza collettiva da una distanza contemplativa che forse (si spera) può mettere in salvo.

Inferno, ALDES- Roberto Castello al Romaeuropa Festival. Ph: Piero Tauro
Inferno, ALDES- Roberto Castello al Romaeuropa Festival. Ph: Piero Tauro

coreografia, regia, progetto video Roberto Castello
in collaborazione con Alessandra Moretti
danza Martina Auddino, Erica Bravini, Jacopo Buccino, Riccardo De Simone, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri, Ilenia Romano
musica Marco Zanotti in collaborazione con Andrea Taravelli
fender rhodes Paolo Pee Wee Durante
luci Leonardo Badalassi
costumi Desirée Costanzo
consulenza 3D Enrico Nencini
mixaggio audio Stefano Giannotti
mastering audio Jambona Lab
un ringraziamento a Mohammad Botto e Genito Molava per il prezioso contributo

una coproduzione ALDES, CCN de Nantes nel quadro di ‘accueil-studio’, sostenuto da Ministère de la Culture / DRAC des pays de la Loire, Romaeuropa Festival, Théâtre des 13 vents CDN, Centre Dramatique National Montpellier, Palcoscenico Danza – Fondazione TPE
e con il sostegno della Rassegna RESISTERE E CREARE di Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, ARTEFICI.ResidenzeCreativeFvg / ArtistiAssociati
con il sostegno di MIC / Direzione Generale Spettacolo, REGIONE TOSCANA / Sistema Regionale dello Spettacolo

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