«Ogni realtà sociale è, per prima cosa, spazio», Questo spunto pare calzante per riflettere sull’urgente domanda di ri-funzionalizzazione del rapporto tra teatro e pubblico, il “suo” pubblico e quello che ancora non lo è: quello da conquistare, la domanda da creare. Ri-creare, con quel prefisso di ri-presa che questa instabile fase storica mette in gioco ad ogni livello di operatività e di comunicazione culturale e non.
Il rapporto dello spettacolo dal vivo con la “rivoluzione” pandemica si articola lungo segnali discordanti: tra cambiamento radicale e recupero delle origini, tra corpi digitali e ruolo di guarigione catartica, tra uno spazio tendenzialmente senza confini della rete (dove lo schermo non è limite, ma potenziamento dello sguardo) e uno spazio sempre più focalizzato sulla dimensione locale e di servizio diretto. La domanda sulla funzione non sembra possa permettersi di prescindere da una facoltà teatrale che, in apparenza ovvia, assume proprio nel contesto odierno un grande valore distintivo: quella della prossimità. Più di una modalità artistica, diventa una forma dello stare, di esistere in un mondo di distanze. Si tratta non soltanto di chiedere un cambiamento, ma, forse, finalmente, un riconoscimento: la capacità del teatro di curare l’isolamento. Isolamento come solitudine interiore, come condizione alienante, come separazione fisica, spaziale, sociale. Il vuoto spazio-temporale della pandemia, nell’aver fatto emergere nuovi bisogni dell’umano da una parte, dall’altra forse sta rischiando di farli dimenticare con la medesima velocità, di farli apparire come trascurabili, nella ricorsa di soluzioni innovative o alternative dell’essere sociale.
Il sistema produttivo festivaliero, complice anche le tregue estive dei contagi, ha provato a mantenere forte la vocazione ad agire contemporaneamente ai margini e dentro: ai margini rispetto alle istituzioni culturali, dentro il tessuto territoriale. In una riflessione sulla partecipazione attiva come ri-attivatrice di domanda e risposta alla disconnessione umana, il ruolo trasformativo del contatto con “la terra” e dell’aggregazione spontanea appare evidente, anche nell’ottica di una domanda sui “criteri qualitativi” che tali forme di produzione spettacolare chiamano in causa. Palchi di presentazione di nuove generazioni per gli addetti ai lavori, momenti di sperimentazione interdisciplinare “protetta”, modalità di circuitazione vicine alla festa collettiva: interrogarsi sui pubblici che li frequentano può essere interessante per testare le esigenze dell’arte e del mondo.
«Ai margini del sistema e fuori dai centri del sistema […]. É per mezzo di questa distanza che l’azione si fa ponte verso l’esterno e il territorio diventa crocevia di scambio e relazione».
Proprio così dichiara la brochure del festival Terreni Creativi, ideato da Kronoteatro, con la direzione artistica di Maurizio Sguotti, che si è tenuto, ad inizio agosto, ad Albenga e che da dodici anni insiste proprio sul ridare valore ad uno spazio di distanza e vicinanza insieme: la provincia italiana. Nel solco della riflessione è esemplare, dunque, recuperare quest’esperienza nel ricco panorama dei festival estivi, tra norme e green pass, e raccontare la modalità operativa che Sguotti, Tommaso Bianco e compagni si sono inventati e che proprio in questo 2021 ha nel titolo una (provocatoria) dichiarazione d’intenti: Provinciali. Infatti, il festival si è svolto nelle serre dell’entroterra di Albenga, tra la serra Terraalta in Regione Filuse e Rb Plant in Regione Maglio, dove, dal mare, la terra ligure si fa un po’ scostante, ma pura. Gli spettacoli, fruiti da sedute di paglia o negli spiazzi tra coltivazioni di ulivi e fiori, si alternano a conversazioni con esperti del settore (quest’anno la presentazione di Un teatro per il XXI secolo. Lo spettacolo dal vivo ai tempi del digitale di Oliviero Ponte di Pino), spazi conviviali di “Aperitivi quasi cene” e momenti musicali in conclusione.
La formula intreccia addetti ai lavori, cittadini, turisti, artigianalità del posto, con offerta di prodotti a chilometro zero e fruizione dello spazio senza che sia “contaminato”. Il riuso senza il tradimento è la più evidente potenzialità del festival, a cui anche gli artisti in programma sono chiamati, efficacemente, ad aderire, nell’adattamento della loro scena al contesto. La materia spettacolare, per altro selezionata su criteri di multidisciplinarietà che mettono alla prova varie competenze, si riadatta all’acustica dei capannoni, alla luce del tramonto, alla percezione di un pubblico non sempre “di mestiere”, scegliendo di alternare drammaturgie di parola a drammaturgie sonora, in una linea tematica che, seppur non esplicita, sembra trattare la diversità, l’estraneità di un soggetto sociale o individuale, l’alterità che tenta di aggregarsi senza snaturarsi. Ancora salvaguardia della differenza e valorizzazione della comunanza, contemporaneamente. La programmazione, infatti, si è articolata in percorsi di approfondimento poetico di singoli artisti, unicum performativi (Marco D’Agostin con Best Regards, Bluemotion con Tiresias per la regia di Giorgina Pi, Francesca Foscarini con HIT ME) , incursioni burlesque delle Nina’s Drag Queen e la delicata drammaturgia di Bartolini / Baronio in Dove tutto è stato preso, esprimendo la scelta della direzione di isolare firme inconfondibili, ma aprirle ad una fruizione che le radicasse, momentaneamente, allo spazio psico-fisico dei luoghi. Poliedricità e radicamento.
Proprio sulla scia del rapporto spazio-corpo-realtà sociale si possono leggere le proposte di Alessandro Berti e di Daniele Ninarello, rispettivamente in ambito teatrale e coreutico, così come i due spettacoli co-prodotti da Kronoteatro, di Quotidiana.com e Francesca Sarteanesi che mettono alla prova la solidità drammaturgica del dialogo tradizionale, in un gioco di presenze e assenze spazio-temporali. Con Bugie Bianche, Berti (recentemente Premio Speciale per l’innovazione drammaturgica 2021 nell’ambito del 56° Premio Riccione per il Teatro) delinea un percorso di ricerca sull’immaginario occidentale di “razza” bianca (con tutte le controindicazioni del termine, per altro ideologicamente snaturato nel suo significato scientifico) nei suoi rapporti di potere con gli immigrati o i nativi di pelle nera, che sfocia in due spettacoli (per ora) e un film con ZimmerFrei (Blind Love). Nel primo capitolo, Black Dick, il focus del dramma è il corpo: un corpo sociale, culturalmente destrutturato e snaturato in nome di rapporti di sottomissione. Berti sceglie di esemplificarli nello stereotipo dello schiavo, coloniale o pornografico che sia, la cui virilità stereotipata altro non è che un mezzo di sfruttamento economico, figlio dell’immaginario capitalista e di una sorta di “diritto al piacere” non equamente suddiviso, con un percorso razionale sorprendente, con punte di sarcasmo che tagliano l’aria e fanno abbassare lo sguardo. Negri senza memoria esplicita la linea diretta tra l’America e l’Italia di oggi, così colpevolmente dimentica delle sue passate richieste d’accoglienza e “colpevole” ancor più di aver trasformato il tentativo d’integrazione in omologazione. Con toni diversi dal capitolo precedente, blues e soffusi, lo spettacolo ha toccato un livello emotivo più caldo, tra la nostalgia e l’indignazione per una Storia senza più importanza e una tradizione rinnegata (incarnata dai canti popolari, dal pop Daniele Silvestri con Kunta Kinte a Billie Holiday). Drammaturgie con base di studi solidissima, eppure in equilibrio tra racconto documentario e fluidità performativa, dove la musica fa da diga alle parole senza alterarne la chiarezza e le parole l’attraversano prendendone il ritmo. Lo spazio sonoro nasce dalle coreografie di Ninarello (al festival anche con Nobody nobody nobody – It’ not ok to be ok – PRIMO STUDIO) e le musiche di Dan Kinzelman. In Kudoku e Pastorale, uno studio sui rapporti tra interno ed esterno, tra corpo singolo e gruppo. Nella prima, un individuo che sembra smarrirsi, poi riconoscersi, frammentarsi, poi ricomporsi in un dialogo fisico tra spazio e musica elettronica e strumenti a fiato, alla ricerca di un ritmo che esalta la pausa e la discordanza. In Pastorale, quattro soggetti, da una partitura fisica di base, si improvvisano collettività, tra sguardi neutri, occhi che si cercano, che scrutano il pubblico, fino al chiamarsi per nome, per ancorarsi, riconoscersi, alla ricerca di una presenza piena che riacciuffi identità sull’orlo di perdersi, tra la caduta, la sospensione e la stabilità. Estranei alla ricerca di vicinanza anche le due anonime voci di End to end. Una necessaria struggente straziante illusione di intimità, di Quotidiana.com, il cui testo è proiettato sotto forma di schermate WhatsApp, dai suoni invadenti e dalla grafica datata, sovrabbondante di emoticon da “boomer” (direbbe un adolescente del Duemila). Dalla chat quasi grottesca di due depressi, o forse di uno soltanto, sdoppiato come in ogni delirio malato, che cercano lo psicofarmaco efficace contro la solitudine, a due ombre che raccontano una fiaba, i dialoghi dal senso sfuggente diventano immagini, incomunicabili stati interiori che lo schermo prima, l’oscurità poi, smaterializzano. Il dispositivo si fa esso stesso spettacolo, ironico e disilluso richiamo ad una comunicazione a distanza, che illusoriamente si sostituisce all’incontro, tristemente ripetitiva di una parola che non consola più, che non basta a sopravvivere. La stessa alternanza di presenza e assenza nel monologo Sergio della Sarteanesi, sporcato da quel meraviglioso accento toscano, che colora di ironia un discorso tutto al femminile ad una figura immaginaria, o forse reale, ma comunque non presente in scena: Sergio, compagno di un quotidiano piccolo, di ricordi famigliari, fatto di cliché, eppure così prezioso, non si sa se fantasioso, oppure perduto, immerso negli ulivi al tramonto.
Dalle locandine in ogni angolo della provincia, dietro ai menù dei ristoranti del centro, la formula del festival è chiaro esempio del potenziale che la valorizzazione di spazi non convenzionali offre per l’intercettazione di pubblici dal bacino turistico, da quello cittadino normalmente vicino alla dimensione festiva e conviviale più che culturale in senso stretto, al pubblico fedele, che fa rete, che ritorna o che si passa la parola, la sera a cena, la mattina sulla spiaggia, ai giovanissimi volontari in maglia viola che impiegano lì una parte delle loro vacanze. In questa direzione tende un investimento rischioso, spesso senza i paracaduti che un tale lavoro di riadattamento, anche tecnico, richiederebbe; nell’incertezza che la proposta non trovi accoglienza pari all’impresa. Per uno spazio che si stringe, ma non esclude, anzi lega la fatica dell’impresa teatrale a quella del lavoro quotidiano dei mondi sì laterali, ma centri di resistenza.