Il quinto giorno del Festival Mauro Rostagno [di cui abbiamo parlato anche qui], che sta abitando gli spazi condivisi di AP Teatro e Teatro Biblioteca Quarticciolo, ospita Emiliano Valente, autore, attore e regista dello spettacolo La Banda del Gobbo. Mito e resistenza popolare nei nove mesi di occupazione nazista, giunto a ben trecentocinquanta repliche in dieci anni.
La platea dell’Ap Teatro è occupata, quasi interamente, da una platea di giovanissimi studenti dell’ISS Enzo Ferrari, coinvolti nel progetto #UNDERCOSTRUCTION, un’iniziativa che si propone di “avvicinare i più giovani all’arte del teatro, e fornire alle scuole un valido strumento di didattica alternativa per approfondire temi e materie”.
Davanti a loro un palcoscenico molto basso, che sembra voler annullare la distanza tra pubblico e attore, creando un’atmosfera semplice, intima. Proprio questo, forse, unito a una timidezza comune a quell’età, fa sì che la prima fila sia quasi completamente vuota.
Emiliano Valente fa il suo ingresso da sinistra, costeggiando gli spettatori. Indossa vestiti sgualciti: pantaloni retti da bretelle rosse e una camicia bianca. Sottobraccio una copia de Il Messaggero del 1945 che riporta la notizia dell’uccisione del Gobbo del Quarticciolo. Sul palco, con lui, solo una vecchia sedia di legno.
Il Gobbo del Quarticciolo, nato Giuseppe Albano, è stato un criminale; è stato il capo di una banda di rapinatori che portava il suo nome; è stato uno dei protagonisti, a Roma, della Resistenza contro l’occupazione tedesca. Nel racconto di Emiliano Valente diventa allo stesso tempo un pretesto, che dà nome e inizio alla narrazione, e un protagonista assente.
Il protagonista effettivo è infatti un altro: Riccetto (un omaggio a Pasolini e ai suoi Ragazzi di strada, rivelerà l’autore in seguito), bambino di dodici anni nato sotto il Fascismo, che si divide tra le partite di pallone con gli amici, Er Pigna, Neganè, Er Carota, e la bottega di zi’ Franchino, ciabattino gobbo del quartiere Ostiense.
Un giorno, dalla terrazza di zi’ Franchino, Riccetto è testimone di un episodio della “mancata difesa di Roma”: l’occupazione tedesca della città che fece seguito alla fuga del Re e dei vertici militari italiani. A fronteggiarsi, una compagine di militari nazisti e un esercito improvvisato che raccoglieva soldati italiani sbandati, esponenti della Resistenza, e una moltitudine di personaggi, tra cui sora Cettina la fornara de Centocelle, Giggetto il fabbro del Quadraro e anche il Gobbo del Quadraro, con la sua banda.
“Me pareva un gioco, uno di quelli che se fanno da reghezzini”
dirà poi Riccetto, raccontando l’evento.
La figura mitica del Gobbo, conosciuto da tutti nel quartiere grazie agli “espropri” fatti a favore della popolazione affamata e contro coloro che si arricchivano con la “borsa nera”, colpisce Riccetto, che dopo questa esperienza prende una decisione: da mero spettatore vuole diventare protagonista della Resistenza, e soprattutto vuole farlo nella banda del Gobbo, il più attivo e determinato gruppo partigiano operante a Roma e provincia. Il progetto va in porto, e il primo incarico è quello di farsi assumere come strillone presso il Messaggero, per poter distribuire, clandestinamente, copie dell’Avanti!, quotidiano socialista proibito dal partito fascista.
Tra vicissitudini varie, tra il tragico e il comico, il racconto si dipana a ritmi serrati fino ai terribili fatti che, dall’attentato dei GAP a Via Rasella a Roma, il 23 marzo 1944, conducono all’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Rapiti dalla storia, gli studenti della III classe non vedono più Emiliano Valente, non vedono più solo una sedia al centro del palco, ma si appassionano alle avventure “der Riccetto”, da quella traversata della marana che divideva il prenestino dal Quarticciolo, a zi’ Franchino arrestato nella retata dei gobbi voluta dai tedeschi, dalla partita a calcetto con il soldato allampanato fenomeno del pallone, a quella interrotta dalla madre preoccupata (partigiana esistita realmente), fino al triste ma annunciato epilogo, l’omicidio del Gobbo.
Grazie alla capacità narrativa di Valente, moderno aedo, il microcosmo di Riccetto prende vita sul palco, che rapidamente si riempie di personaggi schivi, soldati, bambini e delinquenti. La scenografia sembra essere stata strategicamente spogliata per fare spazio alle proiezioni fantasmatiche del racconto. Si vedono bene il Quarticciolo, via Ostiense e via Rasella, le partite a calcetto, gli scontri, le risate e le lacrime. Il pubblico di ragazzi segue Riccetto che corre giù lungo il Tevere come se davanti a sé qualcuno stesse proiettando un film. La voce si fa guida per la loro immaginazione.
In un momento di confronto tra l’artista e i ragazzi alla fine dello spettacolo, una ragazza minuta con grandi occhiali neri, dopo un iniziale momento di esitazione, confessa:
“È stato come se fossi stata lì anche io”.