In vista di Paesaggi Umani. Distillare storie dalle geografie per una mappa parlante, che si svolgerà a Roma dal 4 al 13 dicembre 2021 [ne abbiamo parlato qui], abbiamo intervistato Carlo Infante, presidente di Urban Experience, docente di Tecnologie digitali e processi cognitivi all’Universitas Mercatorum ed esperto di Performing Media.
Paesaggi Umani, promosso da Roma Culture, vincitore dell’Avviso Pubblico Contemporaneamente Roma 2020-2021-2022, curato dal Dipartimento Attività Culturali e realizzato in collaborazione con SIAE, è un progetto itinerante per la città e in streaming web-radio.
Come descriveresti il progetto Urban Experience? Di che cosa si tratta? A quale pubblico è rivolto?
A me non piace la parola «pubblico», amo piuttosto la parola «spettatori»: è diverso, presuppone una soggettività attiva. Quando facciamo le nostre esplorazioni urbane che chiamiamo walkabout, ci misuriamo con tutti, non solo con quelli che vengono con noi, connessi con le radio, ma anche con quelli che incontriamo per strada. Il walkabout è una cosa semplice e complessa allo stesso tempo. Invitiamo le persone a mettersi in gioco, a mettersi in cammino, a conversare, a partecipare, è il contrario di una visita guidata. Associare l’idea del camminare al conversare e poi fare podcast, o meglio geopodcast, geo-referenziando lo streaming webradio, fa la differenza. Facciamo una cosa avanzata tecnologicamente nel modo più semplice possibile: camminando e parlando con le persone, usando delle radiocuffie e tutto questo va nel web con lo streaming: con i piedi per terrae la testa nel cloud. È una «radio che cammina»... Usiamo anche dei piccoli altoparlantini, a basso volume, per diffondere la conversazione radiofonica mentre attraversiamo i quartieri, ma anche i condomini (come abbiamo fatto più volte in uno dei condomini più grandi d'Europa: il «Serpentone» di Corviale). Da dodici anni usiamo lo streaming e non dall'attuale pandemia durante la quale in tanti hanno scoperto Zoom. Nel 1997 ho pubblicato il libro Educare online nel 1997, ed è ovvio pertanto quanto il background tecnologico mi appartenga, ma al contempo sono stufo di tanta convenzionalità digitale. Il web tre decenni fa era come uno sguardo verso il futuro, l’innovazione che superava l’avanguardia. Adesso è semplice standard di comunicazione. Urban Experience esplora, usa la radio come un’estensione cognitiva che lascia una traccia: i geopodcast che realizziamo esplorando producono una mappa parlante. Nel 2006 a Torino per le Olimpiadi invernali abbiamo inventato una mappa interattiva (quando ancora Google non le faceva: non dava la possibilità di agire sulle mappe ma solo consultarle), con il geoblog abbiamo creato il modo di scrivere storie nelle geografie. L’interattività non è solo cliccare sulle cose, ma anche il modo per immettere proprie informazioni dentro le cose. Il geoblog ci permette di mettere i podcast delle nostre conversazioni erranti nella mappa dei luoghi che esploriamo. Quando facciamo i walkabout lasciamo le nostre voci (mandate in streaming) nella mappa, tracciando un percorso sul geoblog in cui cliccando si sentono le voci della comunità che cammina per la città, rilevando storie. Tornando al programma di Paesaggi Umani, tratteremo di cibo al Mattatoio, il 4 dicembre, alla Festa dell'EcoMercato, parlando delle storie di chi coltiva la terra con la consapevolezza che il futuro sostenibile comporta il riconoscimento di diritti universali: la qualità e sicurezza del lavoro per gli agricoltori, dei costi e delle garanzie della filiera alimentare, della tutela ambientale del territorio e delle radici per le comunità. Il 7 dicembre parleremo di Sisto V, il Papa che ricostruisce Roma ferita dal Sacco dei Lanzichenecchi del 1527. E lo faremo parlare! Con un effetto di intelligenza artificiale, così come faremo con Lucrezia Romana. Parleremo di don Sardelli che lungo l'Acquedotto Felice fece scuola ai bambini dei baraccati negli anni Settanta e la storia di Paolo Ramundo che a Tordinona fece militanza politica nell'occupazione delle case. Questi sono Paesaggi umani: coltiviamo il genius loci, ricostruendo storie inscritte nelle geografie dei luoghi. Altro walkabout (l'11 dicembre) sarà ad Acilia con Marco Baliani, il maestro del teatro di narrazione, seguendo le tracce del suo romanzo sulla sua infanzia in quei luoghi che negli anni Sessanta erano terra desolata.
Secondo la tua visione, quale ruolo ha oggi la tecnologia nelle arti performative? In particolare, in quale modo si possono mettere assieme performance teatrale e tecnologia?
Il vero problema di qualsiasi espressione artistica, soprattutto del teatro, è la ridondanza, è quando si carica troppo. È un problema di misura, come in cucina: quando si cucina non bisogna mettere troppe cose insieme. Spesso con la tecnologia c’è il rischio di esagerare, mentre il vero lavoro, la vera qualità, sta nel sottrarre, lavorare per sottrazione, cogliendo l'essenziale. Mi piace poter pensare che il mondo delle tecnologie possa aprire ad altre dimensioni percettive. Prima della tragedia greca, prima di quel fenomeno avviato circa duemilaottocento anni fa, chiamato theatron, con tutte quelle mirabili strutture architettoniche concave, c'erano i riti eleusini. Accadevano dentro delle caverne e lavoravano sulla risonanza della voce, sugli strani echi e usavano dei fuochi per produrre delle ombre, sollecitando l'immaginario. Più sai, più vedi. Più leggi, più immagini, riesci così a interpretare più segnali e a trarne una buona elaborazione che possa anche determinare il piacere dell'evoluzione culturale. Perché c’è piacere nella sensibilità coltivata. Questo vale per qualsiasi esperienza ma nella dimensione culturale c'è il vero accrescimento del processo cognitivo. I riti eleusini erano impressionanti e spaventosi e mi piace poter pensare che la condizione del piacere della sorpresa teatrale nasca dallo stupore che ti spiazza. Sì, mi piace poter pensare che il teatro più interessante sia quello che ti spiazza, non amo quello che consola.
La tua attività performativa è strettamente legata al tessuto urbano; che impatto ha avuto il Covid su di essa e come avete potuto superare le difficoltà causate dalle restrizioni (mascherine, distanziamento, lockdown ecc.)?
Il walkabout funziona così: con i sistemi radio, siamo a distanza ma sollecitiamo prossimità sociale. Non si sta dentro una sala. È questa la grande differenza. Noi siamo riusciti a fare tante cose anche durante il lockdown, non quello duro ma quello un po’ più sfumato. Abbiamo lavorato tanto in quest’ultimo anno, abbiamo fatto i nostri walkabout in giro per la città mentre le sale erano chiuse.
Che cosa vuole dire Changemaker? Qual è il suo ruolo nella società urbana?
Il changemaker, come in tutti i neologismi, è l'invenzione di un ruolo non predefinito, corrisponde a quel mettersi in gioco che comporta essere autore di se stessi, ma lo dico anche con un po' di autoironia. Io sono un changemaker da quando ho acquisito coscienza politica: negli anni Settanta ero un giovane rivoluzionario ed ero di fatto un changemaker. Poi ho smesso di essere un rivoluzionario perché non aveva senso fare le rivoluzioni in questo Paese, sarebbe stato solo dannoso. Attraverso (e superando) il ruolo del giornalista e del critico teatrale, mi sono occupato della sperimentazione dei linguaggi, quindi operando sulla percezione anche nell'interazione con le tecnologie, partendo da radiofonia e video per arrivare al web. Penso che i grandi moti evolutivi, quelli che determinano le trasformazioni antropologiche passino attraverso la percezione evoluta nel rapporto con le tecnologie, governando con consapevolezza i processi cognitivi sollecitati. I walkabout sono delle vere e proprie palestre di attenzione, è un lavoro sulla percezione della città ma anche del rapporto con gli altri, e questa cosa secondo me è strategica. Il changemaker è uno che lavora per creare le condizioni abilitanti capaci di emanciparci e cambiare noi stessi. Penso che il mondo lo si cambia dal momento in cui si trasforma il nostro modo di osservarlo. È quindi un lavoro sullo sguardo e sull'ascolto, rivoluzionando, in modo ludico e partecipato, i processi mentali attraverso cui osserviamo le cose.