Fabrizio Fiaschini, direttore artistico I teatri del sacro

I Teatri del Sacro 2021 – narrare l’inquietudine, mettere radici: intervista al direttore artistico Fabrizio Fiaschini

«Noi ci siamo», dichiara subito Fabrizio Fiaschini, direttore artistico de I Teatro del Sacro da sette edizioni. Da Lucca ad Ascoli Piceno, l’edizione 2021 porta le «domande della fede» – dell’umano – nella Milano degli anni pandemici, in dialogo tra passato e futuro. E ci sono, infatti, i ricordi della prima edizione con Oibò sono morto di Giovanna Mori e Jacob Olesen, della più recente Acquasantissima di Fabrizio Pugliese (che avevamo recensito qui) e del Desiderio segreto dei fossili di mare dei Maniaci d’Amore (in scena giovedì 2 dicembre). Ci sono gli sguardi degli studenti dell’Università di Pavia, dove Fabrizio Fiaschini è professore di Storia del teatro e di Teoria e tecnica della performance; c’è il pubblico del Teatro Oscar deSidera, tra Corso Lodi e Viale Umbria.

Presidente della Federgat, Fiaschini, integrando azione sociale dell’università e operatività teatrale, orienta la ricerca e l’intervento alla valorizzazione di pratiche spettacolari partecipative, verso il potere trasformativo dei piccoli, semplici, gesti. Si conferma l’attitudine formativa (anche quest’anno è attiva la collaborazione con Casa dello Spettatore) e di sostegno per le giovani compagnie, in una progettualità da sempre rivolta al panorama nazionale. Alla tradizionale formula del bando, per quest’anno incerto, subentra il sostegno della residenza: Bribude Teatro con Materiali per la morte della zia (prima nazionale il 17 dicembre) è il progetto selezionato.


Raccontaci la nuova veste del festival: residenza d’artista e collaborazione con un teatro, in che direzione vi porta l’adozione di una formula che si sta rivelando una modalità di sostegno produttivo efficace per tutto un bacino di formazioni giovani, indipendenti, nuove e che pare stia attraversando una recente valorizzazione anche da parte delle istituzioni?
Per questa edizione, toccata tra l'altro dalle difficoltà seguite alla pandemia, non ci sono state le condizioni per indire un bando di selezione per nuove produzioni, né collocarsi entro la tradizionale cornice festivaliera che caratterizzava le passate edizioni. Però era chiara la volontà di mantenere i caratteri che dall’inizio ci hanno contraddistinto, preservando la continuità dei nostri storici obbiettivi di sostegno creativo e di circuitazione per le nostre produzioni. Da una parte, valorizzare gli spettacoli di repertorio, dall’altra continuare a promuovere la nuova creatività, attraverso una call funzionale a promuovere attività di residenza. Questa scelta non è stata affatto un escamotage, ma ha acquistato un valore direzionale, appunto, attraverso l’esperimento dell’alleanza tra il festival e uno specifico teatro: il Teatro Oscar deSidera di Milano, legato a sua volta al Festival deSidera, con cui I Teatri del Sacro hanno uno storico legame e alla compagnia del Teatro de Gli Incamminati. L’idea di residenza si connette all’immagine dei Teatri del Sacro che prendono casa. L’ipotesi in cantiere è che si possa fondare una sorta di stabilità del festival, accanto e in aggiunta al suo tipico carattere itinerante: siamo stati a Lucca, torneremo magari ad Ascoli, ma mantenendo l’idea che possa resistere anche un’esperienza residenziale in tutti i sensi, intesa non soltanto come specifico momento produttivo, ma anche in senso di intento, di metodo, di nuova identità: un radicamento in una parte di città, in uno spazio.
A proposito di relazioni con il territorio, I Teatri del Sacro e Federgat si interfacciano da sempre con le realtà locali: nel contesto attuale, dove agisce, o dovrebbe agire, il carattere di prossimità dell’azione teatrale e la creazione di reti sempre più vicine alla cittadinanza? Che progetti si stanno sviluppando in questo senso?
Il progetto di alleanza con il Teatro Oscar e DeSidera è nato all’interno della condivisione del Bando Arte & Cultura di Fondazione Cariplo, che nella sua mission indicava proprio la valorizzazione del rapporto con i quartieri, con le comunità, con i territori. Dal punto di vista del sostegno, anche la gran parte dei progetti di Federgat hanno trovato come soggetto interlocutore Fondazione Cariplo. La scelta del Teatro Oscar, oltre ad essere sviluppo naturale di un legame storico tra DeSidera e il festival, ha riguardato anche l’azione di promozione della partecipazione comunitaria che si porta avanti con la gestione del teatro, nell’ottica di incontrare il quartiere e attivare con gli abitanti dei processi culturali di cittadinanza. Quest’obbiettivo è evidente anche attraverso la collaborazione che I Teatri del Sacro e Federgat  portano avanti con Terzo Paesaggio, un’associazione che svolge processi di rigenerazione urbana a base culturale nel contesto di Chiaravalle. È un campo che Federgat frequenta da anni, in un’azione progettuale congiunta su molteplici azioni nel campo delle arti performative, con matrici fortemente partecipative: il contesto urbano di Chiaravalle è significativo, a metà tra città e campagna, tra la zona industriale di Milano e quella rurale. Inoltre, sempre nell’ambito del teatro come strumento di socializzazione, da tre anni è attivo OpenSpace: un progetto Federgat, il cui capofila è ActionAid, volto a contrastare la dispersione scolastica dei ragazzi e degli adolescenti in territori particolarmente a rischio e segnati dalla marginalità, come sono quelli dei quartieri periferici delle quattro città in cui operiamo, Palermo, Bari, Milano e Reggio Calabria. Qui, Federgat si occupa di realizzare azioni di teatro sociale nelle scuole, come strumento di ricucitura delle relazioni tra ragazzi, famiglie e comunità educante, per promuovere una nuova visione delle relazioni. Nella stessa prospettiva, ad Ascoli Piceno si era aperto nel 2019 un corso di formazione per operatori di teatro sociale, grazie alla Fondazione della Cassa di Risparmio di Ascoli, promuovendo la collaborazione con un’associazione del luogo che si occupa soprattutto di teatro e disabilità, La Casa di Asterione. L’idea è quella di non arrivare su un territorio da soli, ma allearsi sempre con chi già vi risiede, chi già lo conosce, per implementare una visione il più possibile inclusiva dell’associazionismo locale.
Dal tuo punto di vista, quali politiche culturali sarebbero necessarie per lo spettacolo dal vivo e più specificatamente necessarie nella situazione di crisi e cambiamento storico e sociale che stiamo attraversando?
Credo che ci siano due aspetti che andrebbero più attenzionati dal mondo dello spettacolo dal vivo e delle istituzioni che lo rappresentano. Da una parte il pubblico, di cui tanto si parla, che spesso è stato oggetto di iniziative, ma sempre nell’ottica del public engagement. Penso che il pubblico vada intercettato non solo nella sua veste di spettatore, ma come parte di un gruppo, di una collettività, nei suoi bisogni più personali. Il teatro deve farsi interlocutore per relazioni umane, dentro una prospettiva d'inclusione, intesa come promozione di legami. Non si può più pensare al pubblico etichettandolo come spettatore, il pubblico ha bisogno di essere ascoltato, accolto, curato. Solo così si potrà sperare in una riconciliazione e lo conferma la crisi di pubblico che i dati evidenziano (si pensi anche al caso del cinema): non perché l’offerta sia meno significativa, ma perché il pubblico è fatto di uomini. Gli uomini vivono un momento di smarrimento, di inquietudine, che non può essere trascurato dall’arte del teatro. Il secondo elemento riguarda il potenziamento del teatro come strumento di socializzazione, attraverso quelle pratiche di teatro e arte partecipativa che oggi sono molto diffuse, riconosciute nel loro ruolo di processualità sociale, ma andrebbero prese in maggior considerazione come una frontiera della teatralità innovativa. Soprattutto con il dramma della pandemia, saranno sempre più richieste e meritano una maggiore attenzione e strutturazione, dal punto di vista di finanziamenti, di linee progettuali e di sostenibilità. Credo che oggi queste forme abbiano un ruolo fondamentale anche dal punto di vista artistico, di rinnovo della qualità della produzione e della fruizione.
Acquasantissima di Fabrizio Pugliese
Acquasantissima di Fabrizio Pugliese
Hai parlato di inquietudine. Tema principe de I Teatri del Sacro è la ricerca sulle inquietudini del contemporaneo. Il tempo che attraversiamo è complesso, fa emergere le debolezze di un intero sistema di valori che sembra non reggere più…
Oggi si percepisce una condizione di vulnerabilità che non appartiene più soltanto a categorie evidentemente considerate fragili e marginalizzate (si pensi all’aera del disagio psichico-fisico, delle patologie della terza età, della tossicodipendenza…). No, l’inquietudine appartiene a tutti. C’è bisogno di narrare e di testimoniare, non di rimuovere in nome di un benessere del quale si stanno sgretolando le illusioni. Perché la vulnerabilità possa diventare un patrimonio comune. Allora l’inquietudine diventa produttiva: se condivisa, se affrontata insieme, forse può rendere migliori. In fondo, la funzione del teatro è testimoniale: il teatro prende posizione, il teatro ha come compito quello di far emergere, rendere visibili situazioni invisibili.
Si parla spesso di “intercettare i bisogni”, quando forse il compito attuale degli operatori culturali dovrebbe essere creare bisogni: il festival guarda da sempre al panorama delle produzioni giovani, come ampliare anche la domanda di teatro delle giovani generazioni, come raggiungerle?
I giovani non sono solo un’età: spesso li si considera un’etichetta, che non corrisponde ad una reale conoscenza della loro identità, dei linguaggi che frequentano. Si dà per scontato che basti promuovere azioni teatrali Under35 perché poi immediatamente nascano gruppi, attività giovanili… non è così. Il problema non è solo a livello di distribuzione di un’offerta che, ad ogni modo, vede compagnie emergenti come molto propositive, ma è soprattutto far arrivare questa offerta ad un pubblico altrettanto giovane, in un’ottica di reale scambio, in entrambe le direzioni. Con I Teatri del Sacro si è sempre puntato a far incontrare i giovani con il teatro, da una parte, dall’altra di creare gruppi: non si può dare per scontato che il processo di aggregazione sia spontaneo, bisogna creare le condizioni. Perché oggi il teatro è un’incognita. Lo è letteralmente: non è conosciuto. Bisogna partire da un punto fermo per provare a cambiarlo: il teatro non appartiene al patrimonio culturale delle nuove generazioni; spesso anche per quelle che fanno teatro vedere teatro non fa parte delle loro esigenze. Bisogna ripartire dal ricreare un tessuto di alleanze tra artisti e giovani spettatori.
… e quanto può essere utile avvicinarli ai processi creativi?
È importantissimo. Quanto più il pubblico, soprattutto quello giovane, viene accompagnato attraverso l’intera dinamica produttiva, ad osservare dall’interno e a non fruire soltanto dello spettacolo, ma del processo, tanto più conosce ciò che davvero accade durante un’azione creativa, il potere fondativo che le dinamiche di creazione hanno. Soprattutto questo può essere uno strumento di avvicinamento alla comprensione della natura specifica del linguaggio scenico. Il festival ho sempre puntato sulla molteplicità di linguaggi, sulla multidisciplinarietà, da spettacoli con l’impronta da musical a spettacoli d’attore più tradizionali, a vere e proprie performance.
Prospettive?
In vista della prossima edizione, il proposito è quello di ripresentare un bando significativo, perché quello è il nostro spirito e il nostro strumento per realizzarlo al meglio. Credo però che il futuro sia anche far germogliare i semi che stiamo buttando: l’idea di residenza come casa permanente, all’interno di un territorio o, chissà, di più territori, è qualcosa che bisogna continuare ad alimentare, è importante, per il legame con la terra, il legame con le persone.

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