una cosa enorme di fabiana iacozzilli - ph. Manuela Giusto

Per una fenomenologia della pelle: Una cosa enorme di Fabiana Iacozzilli

“Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare”.

L’affermazione di Hanna Arendt in Vita activa può aiutarci nella lettura di Una cosa enorme, ultimo spettacolo firmato da Fabiana Iacozzilli (prodotto da Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, Fondazione Sipario Toscana-Centro di Produzione teatrale, Carrozzerie | n.o.t ) che ha debuttato lo scorso novembre all’interno del Romaeuropa Festival.

Ora, al di là delle implicazioni di filosofia politica del testo della Arendt, la citazione presa in esame ben si presta anche solo per osservare la scansione scenica dello spettacolo: suddiviso in due quadri non autosufficienti, nonostante l’esplicito cambio di scenografia tra l’uno e l’altro (potremmo osare dire “a vista”, se non fosse per il buio), Una cosa enorme, dopo un prologo fatto da registrazioni di voci femminili che riportano le proprie riflessioni/esperienze sulla maternità, inizia dall’inizio. Si apre infatti con una donna (la potente Marta Meneghetti) con una pancia grande fuori misura, talmente enorme che non sarebbe poi così sbagliato dire che si apre con una pancia grande fuori misura con una donna. In effetti fin da subito appare lampante che il soggetto protagonista sulle tavole del Teatro Vascello nella prima scena sia proprio questa pancia immensa, conduttrice pesante del corpo della donna, la quale si aggira faticosamente tra pochi oggetti di uso domestico. Un ribaltamento forte che fa assurgere la Pancia a soggetto attivo e limite ad un tempo e la donna a supporto quasi totalmente passivo, che fisicamente sottostà alle possibilità offerte dalla Pancia: la postura sbilanciata, la camminata a gambe larghe e le difficoltà a compiere i più banali gesti quotidiani rendono bene la condizione femminile.

Se non fosse che il carattere della donna, laddove il corpo pare assopito, riesce in una qualche maniera a emergere. Si tratta contemporaneamente di una forma di sopravvivenza, protezione e ribellione, o meglio, di protezione che si tramuta in ribellione, quando imbraccia il fucile e colpisce un grande volatile, quando fuma ossessivamente una sigaretta e sicuramente anche quando sceglie di legare quel gigante cordone ombelicale che pende tra le gambe a un fusto di un albero ormai spoglio per riuscire a liberarsi da quel fardello: quel figlio che “nuota dentro di te” da tempo immemore. Sceglie di essere pronta, nonostante sprazzi di frustrazione, paura e fatica che rendono il momento della nascita così fisicamente ed emotivamente incontrollato e incontrollabile.

È la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro.

È, in sostanza, trasformazione.

Una cosa enorme. Ph Manuela Giusto
Una cosa enorme. Ph Manuela Giusto

Difatti a quel parto per certi versi straziante segue una nascita inaspettata. La seconda scena si apre con un corpo quasi totalmente nudo che si presenta di schiena in posizione fetale e solo quando con quella curiosità mista a insicurezza propria dei primi passi dei bambini trova la verticalità ne riconosciamo un corpo palesemente vissuto, lontano dai corpi morbidi e rotondi dei neonati. È nato fra noi un uomo. Un uomo già uomo, magro al limite dell’emaciato.

Primo tilt: quell’uomo è il neonato venuto al mondo da quel parto tanto doloroso? Quell’uomo è un bambino?

Neanche il tempo di porsi la questione che si para davanti agli occhi degli spettatori un secondo tilt: quell’uomo vissuto e neonato allo stesso tempo si accende una sigaretta. L’imprinting della madre accanita fumatrice è tutto in questo primo gesto, così incoerente per un bambino appena nato. È come una voglia, ma qui la macchia sulla pelle diviene azione.

A tal proposito c’è da aprire una piccola parentesi: in Una cosa enorme il corpo si sostituisce alla parola. Non solo i gesti e le azioni sono la matrice di senso delle scelte registiche, ma la pelle si innalza a superficie significante, contenitore che sigilla un qualcosa di più profondo: in definitiva, una condizione. Lo vediamo nella pelle di quella pancia enorme scoperta, ma ancor di più nella pelle che racchiude le ossa e la vita dell’uomo interpretato magistralmente da Roberto Montosi. Le parole diventano superflue, perché di fronte a quei corpi esposti lo spettatore riesce ad accarezzare l’esistenza delle vite altrui, riconoscendo e riconoscendosi. È un’impressione fortemente tattile quella su cui gioca la Iacozzilli da cui scaturisce un’eccedenza importante: la nuda materialità è solo una parte del corpo vivo e l’esperienza tattile (reale in scena e immaginaria tra scena e platea) contiene vissuti di coscienza capaci di sensazioni forti che sfondano la quarta parete.

Sembra quasi una fenomenologia della pelle, dove proprio la pelle nella quasi totale nudità del corpo maschile gioca una doppia partita: rende i soggetti visivamente vulnerabili sia a una potenziale ferita inferta dall’esterno, che a una carezza, a un gesto di cura che altro non può che provenire da una figura materna.

Ma c’è di più: la nudità di quel corpo, glabro e indifeso, accosta la figura del bambino a quello del vecchio, facendo rientrare entrambi a pieno titolo nell’immaginario dell’inerme, del dipendente e, in definitiva, di chi ha bisogno di protezione. Dopo una serie di situazioni in cui il vecchio-bambino agisce facendo pendere l’ago della bilancia verso l’universo dell’infanzia (emblematica in tal senso la presenza di un alto seggiolone su cui Montosi fa una goffa colazione), a tradurre scenicamente tale sovrapposizione di esistenze in Una cosa enorme ci pensa una delle pochissime frasi verbali pronunciate dalla Meneghetti: “vuoi fumare, papà?”.

Si risolve così quel tilt che rendeva tanto sfumata la figura maschile, quel neonato in un corpo vissuto che fino a quel momento si era destreggiato tra momenti infantili e momenti con comportamenti da adulto, primo fra tutti quello volutamente disorientante di protezione e consolazione nei confronti della donna.

Con quel “vuoi fumare, papà?” si dispiega per lo spettatore l’istanza primaria di cura dell’altro che appartiene all’universo femminile; ma non un altro generico, bensì quell’altro incarnato dal figlio e dal padre. Fabiana Iacozzilli mette in scena la dimensione ciclica della maternità, dove la fecondazione è procreazione, gestazione e parto, ma anche e soprattutto cura, protezione e nutrizione. Di fronte a Una cosa enorme la maternità da condizione passeggera diviene stato esistenziale appartenente per natura all’universo femminile. La stessa Iacozzilli nelle note di regia afferma che lo spettacolo «si interroga su una questione che appartiene a ogni donna, alla sua condizione esistenziale e che ha a che fare con una domanda semplice ma per niente consolatoria: “forse alla fine, si è madri comunque?”».

A pensarci bene lo stereotipo della madre tutta dedita all’altro lo si incontra un po’ ovunque, a partire dall’iconografia cristiana, laddove la Madonna vive nella relazionalità con il Figlio, aprendo all’equivalenza “femminile = maternità”. Prendersi cura non ha nulla di riflessivo, lasciando che il sé femminile scompaia, sia schiacciato, spesso relegato a momenti di solitudine e straniamento dalla realtà. La donna è sempre per l’altro, che sia un figlio o che sia un padre. In questa prospettiva Una cosa enorme ha un accento fortemente politico, dal momento che la mente di una donna partorisce un oggetto sulla condizione della donna universale in quanto madre, in quanto soggetto partoriente, generatore di esseri che nascono vulnerabili. Proprio per quest’ordine naturale delle cose la donna, quasi per espiare una colpa, si dimena in un’esistenza fondata sulla relazione duale, dove le responsabilità di accudimento sono sempre unidirezionali. E se ci si sottrae da questa cornice di senso? È qui che risiede quella domanda retorica “per niente consolatoria” che la Iacozzilli inserisce nelle note di regia. Perché pare non esserci un’alternativa: se si è donna, si è comunque madre; altrimenti sottraendosi a una condizione umana naturale, la donna può essere additata solo come irresponsabile.

C’è dell’impotenza.

E tra gli interstizi di questa impotenza si legge una vita in balia degli eventi: la Meneghetti (madre e figlia contemporaneamente) incarna una donna dall’atteggiamento poco lineare, dagli sbalzi di umore frequenti e che spesso osserva dall’esterno prima di agire, sapendo come andranno a finire le cose. È la stanchezza, la fatica e il sentirsi oberati da un peso prima fisico (la pancia) e poi emotivo e di stile di vita.

Però c’è un “ma”. Un “ma” immenso o forse enorme, come quella “cosa” che dà il titolo allo spettacolo: c’è l’amore.

Dalla platea l’inspiegabile sfinimento della donna si percepisce come amore ed è proprio la forza di questo amore che, universalmente riconosciuto, in Una cosa enorme si presenta tattilmente agli spettatori: come una carezza sulla guancia o un pugno nello stomaco, chi è seduto al Vascello sente qualcosa che lo tocca. Un’affezione mai celata, che la donna offre senza veli e senza misura. È l’amore che spinge la donna sempre oltre a sé, sempre verso l’altro. Dalla nascita alla morte.


uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli
con Marta Meneghetti, Roberto Montosi
scene Fiammetta Mandich
luci Luigi Biondi, Francesca Zerilli
suono Hubert Westkemper
realizzazione body suit Makinarium (special – visual – effects)
collaborazione ai costumi Davide Zanotti, Anna Coluccia
aiuto regia Francesco Meloni
assistente alla regia Cesare Santiago Del Beato
assistente alla drammaturgia Carola Fasana
fonico Jacopo Ruben Dell’Abate
foto di scena Manuela Giusto
foto locandina Paolo Cenciarelli
collaborazione artistica Lorenzo Letizia, Luca Lotano, Ramona Nardò
un ringraziamento a Giorgio Testa 
un ringraziamento speciale a Beatrice Fedi, Olga Galieri, Paola Sambo, Luana Provenziani, Gaia Clotilde Chernetich, Gianmarco Vettori, le donne del progetto Dentro la visione, gli artisti che hanno partecipato al laboratorio Labirion, le donne e gli uomini che abbiamo intervistato.
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, Fondazione Sipario Toscana-Centro di Produzione teatrale, Carrozzerie | n.o.t
con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, Regione Lazio – Direzione Regionale Cultura e Politiche Giovanili – Area Spettacolo dal Vivo
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo, Periferie Artistiche Centro di Residenza Multidisciplinare della Regione Lazio, ATCL Circuito multidisciplinare della Regione Lazio per Spazio Rossellini
con il supporto di Nuovo Cinema Palazzo, Labirion Officine Trasversali

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