Abbiamo intervistato la Compagnia Bartolini/Baronio, che oggi 13 dicembre sarà in scena al Teatro India con lo spettacolo Josefine, da Kafka. A partire dalla metà del mese, invece, saranno ospiti della rassegna Teatro a 369 gradi, pedagogia e sperimentazione con i ragazzi di Ostia con diversi progetti.
Con le studentesse e gli studenti del Liceo Classico Statale “Anco Marzio” state portando avanti il laboratorio di scrittura e lettura «Ritratti del Territorio». Cosa vuol dire lavorare con gli adolescenti di Ostia? Quali sono le difficoltà e i valori aggiunti dell’esperienza?
Dal 2015 abbiamo iniziato un percorso con il Liceo Anco Marzio e il Teatro del lido collaborando con il laboratorio teatrale condotto dalla professoressa Nicoletta De Simone.
Per noi questo incontro è stato un dono, un nutrimento per la nostra ricerca artistica e umana. Sappiamo di aver lasciato qualcosa di importante alle ragazze e ai ragazzi che negli anni si sono alternati nei laboratori, che alcune vite hanno preso strade e forme insperate. E sappiamo quanto ognuno di loro sia stato un dono per noi.
Il lavoro con gli adolescenti è fondamentale, è la cosa più importante da fare in questo momento.
Il senso di continuare a fare teatro lo abbiamo trovato proprio lavorando con loro, dando spazio alle loro voci, spesso nascoste, inascoltate. Le ragazze e i ragazzi hanno una fame di cultura e di amore potente. Scrivendo per la scena, portando fuori i loro pensieri hanno espresso forte il desiderio di cambiare il mondo più di quanto non si pensi. Il rapporto con il loro territorio, con Ostia, è potente, ed è per questo che abbiamo declinato tutti i lavori, da quello su Pasolini fino a Furore di Steinbeck, proprio partendo da quello che amano del posto in cui abitano e da quello che sentono dovrebbe cambiare.
A volte ci sono situazioni difficili, al limite, e proprio in questi casi, il teatro è stato uno strumento di trasformazione, di cambiamento, ancora di più dopo la pandemia.
Immergendoci nelle pagine degli autori e dei temi proposti e facendoli dialogare con le loro biografie, le ragazze e i ragazzi hanno scritto a loro volta di territori da lasciare o da curare, di umanità da ritrovare, di razzismo, del desiderio di costruzione e non di distruzione, di essere disposti a lottare anche quando è difficile vincere, di rispetto per l’altro e per se stessi, di sentire e trovare nel passato degli oppressi e delle loro lotte ancora una strada possibile.
Pagina dopo pagina hanno ascoltato dov’era la loro passione, i loro desideri. A volte erano chiusi tra le pagine di un diario, dentro una stanza chiusa, nei corridoi di una scuola, tra le strade di Ostia e il lavoro in teatro gli ha permesso di far uscire fuori tutto e di condividerlo di portarlo fuori come un dono da offrire al mondo. Negli anni si è creata una piccola comunità con cui continuiamo a lavorare anche al di là dei laboratori coinvolgendo i ragazzi e le ragazze della scuola anche in altri progetti come per esempio Esercizi sull’abitare.
Con un gruppo di giovani avete portando avanti il lavoro per il cortometraggio Cuore a cuore, pelle a pelle, che sarà presentato il 2 dicembre. Quali aspetti dell’esperienza umana avete sondato e indagato, e perché? Cosa vi ha portato a scegliere la forma cinematografica del cortometraggio?
Il cortometraggio è nato all’interno dell’edizione 2020 di Allezenfants, il festival dedicato agli adolescenti diretto da Carrozzerie not e Isola Teatro che ci vede coinvolti insieme ad altri artisti che lavorano come noi con le scuole superiori.
A causa della pandemia Allezenfants non poteva svolgersi come nelle edizioni precedenti ma allo stesso tempo il festival era necessario che si facesse anche se in una forma diversa, proprio per non spezzare il filo con i ragazzi già privati del teatro e della socialità.
Abbiamo così ricucito il senso più profondo della relazione immaginando un altro percorso e usando il mezzo cinematografico: a partire dalle suggestioni del Decameron di Boccaccio, ogni conduttore coinvolto dentro Allezenfants ha lavorato con il proprio gruppo di studenti alla realizzazione di un corto di circa 5 minuti. Poi abbiamo avuto la possibilità di girare negli spazi esterni del Teatro India dei raccordi collettivi in cui alcuni studenti dei cinque gruppi coinvolti hanno potuto lavorare insieme per alcuni giorni, facendo esperienza di quella collettività che ha sempre animato il festival Allezenfants. Alla fine del percorso si è lavorato al montaggio dei cinque cortometraggi e dei raccordi ed è stata montata l’opera collettiva.
Il nostro corto “Cuore a cuore, pelle a pelle” ha messo insieme diversi studenti di diverse età che hanno scritto pensieri, riflessioni, racconti a partire dalla suggestione di Boccaccio ma declinata alle loro vite durante il lockdown. Tutti questi scritto sono diventati il materiale con cui è stata elaborata la sceneggiatura. Abbiamo lavorato alla scrittura di testi che nascevano dal loro periodo di isolamento, abbiamo posto a tutti la stessa domanda: qual’è stato il posto del tuo territorio in cui sei andato appena sei potuto uscire dopo il lockdown? Che sensazioni hai avuto? Come hai guardato le cose intorno a te? Abbiamo poi ripercorso insieme quei luoghi usando il mezzo cinematografico per trattenere dei paesaggi esteriori e interiori.
È stato un momento molto forte di socializzazione, un ritorno alla relazione, una grande commozione anche. È stato un dialogo tra narrazione, scrittura, emozioni e immagini.
Per la realizzazione del cortometraggio abbiamo collaborato con l’associazione Ostia film Factory nata proprio per gli studenti del territorio.
Il vostro spettacolo Dove tutto è stato preso concluderà la rassegna, che ha esplicitamente un occhio di riguardo nei confronti del pubblico giovanile. Quale reazione vi aspettate da parte degli adolescenti? Come vi siete posti nei confronti delle nuove generazioni nel percorso di ricerca creativa svolto per questo progetto?
Dove tutto è stato preso ha dato inizio a tutta la nostra ricerca sull’abitare, siamo molto felici di portare questo lavoro proprio ad Ostia dove abbiamo proposto questo tema anche ai ragazzi.
Cos’è casa per te? È la domanda che muove tutto la ricerca. Pensiamo che la visione dello spettacolo possa aprire un nuovo momento di condivisione che tira le fila del progetto ma anche rilancia tenendo vivo il rapporto con questo territorio.
Il 13 dicembre, sarete in scena con Josefine al Teatro India, per Teatri di vetro. Che rapporti avete con questo spazio e con questo festival?
Teatri di vetro è un pezzo di vita, una casa. L’inizio della nostra storia artistica è nata proprio con Roberta Nicolai e il triangolo scaleno, abbiamo contribuito alla nascita di Teatri di vetro lavorando alle prime edizioni. Poi dal 2009 è nata la nostra formazione artistica e abbiamo iniziato un nuovo percorso. Ma il legame non si è mai spezzato, si è bensì trasformato e Roberta ha accolto i nostri progetti all’interno del festival, seguendoli da vicino, in un continuo scambio artistico.
Siamo grati a lei e a questo festival che in questi anni ha dato spazio alla creazione di spettacoli come “Dove tutto è stato preso” e ora “Josefine”.
Il Festival oggi ha una vocazione importante che sentiamo ancora più necessaria in un momento come questo. Teatri di vetro si domanda continuamente qual’è il senso della scena mettendo al centro il processo di creazione e la sua condivisione con il pubblico.
Cosa vuol dire confrontarsi scenicamente con Kafka? Come avete scovato questo testo, e cosa vi ha ammaliato?
Kafka è stato presente nella nostra vita artistica proprio negli anni di lavoro all’interno del triangolo scaleno. All’epoca come attori abbiamo lavorato al Castello ed altri spettacoli tratti dai racconti che Kafka ha dedicato agli animali tra cui Relazione per una accademia.
Kafka non ha mai smesso di essere un autore a cui tornare. Kafka è nella ferita del mondo che viviamo ed è sempre una scrittura che parla alla scena, che indica un linguaggio scenico, una possibilità di traduzione. Il racconto Josefine la cantante, o il popolo dei topi ci è stato consigliato da Francesco Raparelli, amico, filosofo, ricercatore universitario con cui abbiamo collaborato per questo e altri nostri progetti, e a cui dobbiamo tante suggestioni e riflessioni che sono poi confluite nella drammaturgia dello spettacolo Josefine.
La lettura di questo racconto è stata folgorante: la questione del rapporto tra l’artista e la società è sempre stata presente nei nostri lavori ma qui, nella storia della topolina Josefine che cantando ferma il popolo dei topi e per un attimo lo libera dalle catene della vita quotidiana è come se avesse dato forma alla domanda centrale che dopo la pandemia si è posta come un macigno tra noi e la scena: perché non possiamo farne a meno? Qual’è il senso del nostro continuare a fare teatro? Possiamo ancora sentire un “noi”? Che cos’è la libertà che genera l’atto creativo? …
Sulla scena la nostra Josefine è un archivio di immagini, pensieri, suoni, evocazioni, una stratificazione di materiali che l’attore monta e smonta, l’attore è esso stesso un archivio della memoria personale e collettiva.
Che ruolo ha il gioco nella vostra creazione artistica?
Fondamentale! Josefine parla anche di questo.
Per immaginare la scena dobbiamo fare quell’esercizio di libertà che l’infanzia ci racconta e ci insegna. Il teatro ci permette sempre di attingere a quella sorgente di libertà che il gioco del bambino porta con sé, quel gioco serio, imprescindibile, vitale.
La gioia che c’è in quel giocare è una sì gioia che nasce dal singolo ma che si fa gioia donata alla molteplicità. Poi siamo una coppia artistica ma anche una coppia nella vita e se smettessimo di giocare che noia!