La rivoluzione in macerie e le macerie della rivoluzione. Ottantanove di Frosini/Timpano

Era il 1992.
Il politologo americano Francis Fukuyama rendeva incandescente il dibattito pubblico con l’uscita del suo saggio “La fine della storia e l’ultimo uomo”. Tre anni prima era crollato il Muro di Berlino e con esso, secondo Fukuyama, l’evoluzione storica avrebbe smesso di procedere: le democrazie liberali avevano messo il punto alla Storia. Erano la fine e il fine.

Trascorrono 30 anni. Siamo nel 2021.
Al centro del dibattito pubblico sono piuttosto le opinioni sull’andamento della pandemia e le controversie politiche che infuocano i social a suon di stoccate personali. Il resto è marginale, quasi a voler dar ragione alla tesi di Fukuyama.
In realtà la Storia continua ad esserci, con le sue continuità e discontinuità, nelle evoluzioni e involuzioni. Ciò che è cambiato è il sentimento con cui la guardiamo e soprattutto con cui la viviamo.

E infatti sempre nel 2021, più precisamente a novembre, ci siamo ritrovati a osservare un pezzo di Storia, attraverso gli occhi e le parole di Elvira Frosini e Daniele Timpano questa volta in una formazione a tre, accompagnati dall’esuberante capacità attoriale di Marco Cavalcoli (ai più conosciuto grazie ai lavori firmati Fanny & Alexader), al Teatro India nella programmazione del Romaeuropa Festival.

Continuiamo parlando di anni: 1789, Rivoluzione francese. Frosini/Timpano partono da lì, esattamente due secoli prima di quel crollo del Muro che per Fukuyama sanciva la fine della storia. Probabilmente per loro non è un caso: del resto il titolo dello spettacolo è chiaro: “Ottantanove” è un numero, un anno che scritto in lettere contiene la rivoluzione, o meglio, le rivoluzioni che hanno cambiato volto all’occidente. Però Ottantanove non mette in scena né la Rivoluzione Francese, né tantomeno la caduta del Muro; piuttosto ne mostra pezzi, frammenti, resti che pesano e si intrecciano con il presente.

A noi spettatori non resta che mostrarci disponibili a prendere in mano quei ricordi di un passato che pare non riguardarci per rimetterli in sesto, ridonargli un senso per il nostro oggi in cui l’entusiastico agire sembra un’utopia anacronistica. Difatti Ottantanove non tenta di rimettere in scena degli eventi storici, quanto piuttosto, attraverso scritti, poesie, inni e costumi di un altro tempo fa riaffiorare un sapore. Quel sapore che i manuali storia bypassano perché apparentemente secondario, ma che al contrario raccoglie il senso profondo degli eventi. O comunque di simboli e retoriche del tempo. Le fredde date, annidate in numeri, si trasformano in atomi di vita vera, scintille di cultura e di culture che continuano a parlare all’oggi. Parlano ancor di più se si intrecciano con ricordi personali.

Ottantanove allora è frutto di sovrapposizioni, dove la grande Storia comunica con le piccole storie, dove il mito degli eventi passati incontra il mito dell’infanzia di ognuno, dove in fin dei conti le grandi rivoluzioni politiche non sono poi così dissimili dal sentimento sovversivo dell’infanzia e dell’adolescenza. In questo gioco di canali aperti, di continuo rimbalzo temporale, di connessioni più logiche e poetiche che cronologiche si insinua un’amara questione: se “ci trasformiamo in passato, il futuro ci riguarda?”

La risposta galleggia in quel marasma di reliquie che i tre interpreti riportano alla luce: tra gli altri c’è Alfieri, c’è Hugo e c’è Rousseau, ci sono Foscolo e Peter Weiss.Parole, note musicali, film e serie televisive. Reperti che si collegano l’un l’altro, per assonanza o per contrasto, per condurre lo spettatore in un guazzabuglio di rivoluzioni passate, grandi o piccole che siano, perché l’importante non è “fare la rivoluzione, ma ricordarla”. Frosini, Timpano e Cavalcoli le ricordano eccome, attraverso una verbosità e una presenza scenica dirompenti, difficili da seguire passo dopo passo, perché ciò che importa è mettere sul piatto della bilancia tutte insieme quelle tonnellate di reperti archeologici. Un unico blocco di marmo fatto di parole pompose e frenetiche che i tre interpreti costruiscono attraverso un palleggio continuo: sembra di trovarsi di fronte al gioco della patata bollente e qui di bollente c’è davvero molto.

Ottantanove, Ph: Ilaria Scarpa
Ottantanove, Ph: Ilaria Scarpa

Dietro a quelle bandiere francesi infatti che ricadono tristemente verso terra, mostrando le pieghe e la vetustà del simbolo patriottico, dietro a quell’apparato sonoro di parole serrate e dietro a quei continui passaggi temporali e geografici senza avvertimento, si nasconde la bollente consapevolezza che le quattro rivoluzioni- quella protestante, quella francese, quella comunista e il Sessantotto- qui inneggiate per aver seminato ciò che c’è di buono nel presente, in realtà non siano altro che il seme di un senso di una democrazia sbiadita; così come sbiaditi siamo noi che, stanchi, non troviamo né la forza né la motivazione per muovere la rivoluzione stessa. Sembra particolarmente calzante il parallelismo con il teatro, quel teatro che pone lo spettatore in una condizione di passiva sonnolenza, al contrario della festa di matrice rousseiana: lo spettacolo del mondo lo si guarda, non si vive e non si cambia.

È qui che si cela Ottantanove: tra gli infiniti fili di un passato archeologico, il trio Frosini-Timpano-Cavalcoli si chiede e ci chiede:

“Esiste la rivoluzione?”

E soprattutto, “chi è il nemico” contro cui combattere? In definitiva, ha ancora senso una rivoluzione in un mondo in cui non sappiamo cosa cambiare e come cambiarlo? È una domanda retorica quella che serpeggia durante le quasi due ore di spettacolo.
E la risposta è tutta in quel

“Riformismo is the new rivoluzione!”

dove il procedere gradualmente rivela la strategia per affrontare il presente. Del resto quel piccolo bonsai, fil rouge di tutto lo spettacolo e rimando in miniatura dell’Albero della Libertà della Rivoluzione Francese, ce lo dice chiaro e tondo:

“a piccoli passi, poco a poco, piano piano”.

Torniamo alla tesi di Fukuyama. La Storia non è finita. E a noi non resta che continuare a scriverla, provando a riportare la democrazia fuori dalle sue stesse macerie. Come?!? A piccoli passi, poco a poco, piano piano.


Drammaturgia e regia: Elvira Frosini e Daniele Timpano
Con la collaborazione artistica di: David Lescot
Con: Marco Cavalcoli, Elvira Frosini, Daniele Timpano
Disegno luci: Omar Scala
Assistenza alla regia e collaborazione artistica: Francesca Blancato
Scene e costumi: Marta Montevecchi
Musiche originali e progetto sonoro: di Lorenzo Danesin
Organizzazione: Laura Belloni
Elettricista: Marco Guarrera
Fonico: Lorenzo Danesin
Coordinamento tecnico dell’allestimento: Marco Serafino Cecchi
Assistente all’allestimento: Giulia Giardi
Cura della produzione: Francesca Bettalli e Camilla Borraccino
Ufficio stampa: Cristina Roncucci
Foto: Ilaria Scarpa
Video documentazione: Lorenzo Letizia e Emiliano Martina
Immagine del manifesto di: Valentina Pastorino
produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con Kataklisma teatro e Teatro di Roma – Teatro Nazionale
residenze artistiche Istituto Italiano di Cultura Parigi, Città delle 100 Scale Festival
un ringraziamento a Compagnie du Kaïros – France
vincitore della Menzione Speciale Franco Quadri nell’ambito del Premio Riccione 2019
In corealizzazione con
Teatro di Roma

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