Continua il ciclo di incontri «Pensare il teatro» all’interno del progetto Per un teatro necessario del Dipartimento SARAS della Sapienza Università di Roma. Il 14 dicembre si è tenuto il terzo appuntamento condotto dal prof. Guido Di Palma e dedicato al teatro di Fabiana Iacozzilli (qui la recensione dello spettacolo Una cosa enorme).
Dal racconto delle sue esperienze di formazione sono affiorate tra i ricordi le lezioni dei maestri e degli artisti con i quali ha lavorato. Partita dalla laurea in Arti e scienze dello spettacolo alla fine degli anni Novanta, successivamente ha articolato il suo lavoro su un doppio range di formazione frequentando il corso di regia del Centro Internazionale La Cometa, dove lo studio dell’azione fisica e l’incontro con l’Étude sono stati determinanti nella ricerca drammaturgica dell’allora allieva regista.
Il percorso all’interno della scuola le ha permesso di lavorare al fianco di alcuni artisti del panorama italiano, primo tra tutti Pierpaolo Sepe, la cui lunga collaborazione le ha lasciato in eredità visioni e percezioni, tanto sulla bellezza della creazione nella ricerca drammaturgica, quanto sulla condizione di solitudine che, secondo Fabiana Iacozzilli, la professione del regista porta con sé.
La consapevolezza delle proprie capacità e dei propri limiti ha tracciato il suo cammino, verso una visione teatrale personale, necessaria in termini di identificazione.
Nel 2005 ha lavorato al Piccolo Teatro di Milano, come assistente alla regia di Luca Ronconi per Il professor Bernhardi di Arthur Schnitzler. Dalla collaborazione con un grande maestro deriva una grande lezione, l’importanza della disciplina, caratteristica che la Iacozzilli coniuga con una scrupolosa perseveranza votata all’efficacia dei suoi meccanismi drammaturgici. Meccanismi che richiedono una lettura oculata verso ogni particolare.
Il riverbero di queste esperienze formative si riscontra in primo luogo nella relazione con gli attori, soggetta a una tensione e a un’energia vibranti che per mezzo dei personaggi riverberano sulla scena; in secondo luogo, si fa strada un’idea di spietatezza in cui il tempo gioca un ruolo fondamentale. Secondo la regista, sottoponendo il lavoro dell’esperienza teatrale a una fissazione nel tempo, è possibile cementificare i personaggi e proteggerne la vita stessa. Gran parte del lavoro eseguito in improvvisazione con gli attori e poi con i personaggi è frutto di una partitura di azioni fisiche, che in un secondo momento ne determinerà le psicologie.
L’applicazione di questo principio ha avuto una diversa evoluzione all’interno dello spettacolo La classe, il primo degli spettacoli portato in esempio dalla Iacozzilli. Lo spettacolo è stato rappresentato per la prima volta nell’ottobre del 2018 al RomaEuropa Festival: la scena è abitata da quattro pupazzi e dai rispettivi animatori, che, insieme a delle interviste registrate, portano in scena i caratteri di alcuni ex compagni di classe della regista, che con lei hanno vissuto parte della sua infanzia. Durante il processo di prove l’improvvisazione si è sviluppata a partire da un ostacolo legato al lavoro dei puppets e quindi dei rispettivi animatori o performer: come far improvvisare la materia? I costanti caratteri dei pupazzi e le loro funzioni si legano a quella importante partitura di azioni fisiche da rispettare al millimetro, pertanto, uno o più animatori sono posti nel mezzo di una conversazione, di un dialogo complesso e delicato con i pupazzi, dalla quale non è possibile ricevere risposte dirette. Dunque, la soluzione per la regista è connessa alla cura e alla mediazione di quella fragilità insita ai personaggi e alla sfera intima della storia raccontata.
La cifra stilistica e artistica del lavoro registico ruota attorno al tema dell’infanzia, nel quale riecheggiano, come dice Fabiana Iacozzilli, «magia, mistero e dramma». Tre aspetti che si pongono in comunicazione diretta con il teatro.
Il presupposto della fase di ideazione del lavoro prende le mosse da una necessità, quella di ricostruire fatti e persone di quel periodo per riscontrare la veridicità e la concretezza di quei ricordi. Un’incandescenza cercata e trovata in condivisione e sottrazione nel lavoro di gruppo alla messa in scena, diffuso da una profonda riflessione sui maestri e sul ruolo che rappresentano nelle vite di ciascuno di noi. L’interrogativo di partenza da personale è divenuto processualmente condiviso all’interno del gruppo di lavoro, laddove fiducia e comunicazione hanno creato insieme senso e amore.
La classe è stata la conseguenza di un processo di trasformazione non solo linguistico, ma anche stilistico, già precedentemente in atto nei suoi spettacoli. L’anticamera al teatro di figura, oggi chiave del lavoro di Fabiana Iacozzilli, è stata aperta all’interno del terzo di tre capitoli di una trilogia di spettacoli, La trilogia dell’attesa, trittico portato in scena per la prima volta nel 2015 dalla compagnia Lafabbrica. I capitoli Aspettando Nil, Quando saremo grandi e Hansel e Gretel il giorno dopo presentano delle drammaturgie sceniche che nascono da una condizione di attesa che la stessa compagnia stava vivendo e attraversando.
Nel terzo episodio, la morfologia della favola di Hansel e Gretel è cambiata in favore di una diversa morale. Nell’idea della regista i due personaggi mangiano la dolce casa della strega da loro imprigionata, per poi attendere l’arrivo del Padre, nel frattempo mutati in creature obese. Le loro mutazioni vengono rese attraverso l’imprigionamento dei personaggi nei grandi costumi di gomma piuma.
Per Fabiana Iacozzilli l’arrivo al teatro di figura è passato attraverso un cammino di studio, quello sull’«attore marionetta» che utilizza la ripetizione gestuale per poi infrangersi nel carattere del personaggio. Questo il lavoro inerente al primo Aspettando Nil, dove i due personaggi vivono non solo all’interno dell’intervallo di tempo spettacolare, ma anche precedentemente e successivamente a quello spazio e quel tempo. Difatti lo spettacolo vive di quel tempo complesso dell’esperienza di prova, che recupera una dimensione di estremizzazione e spietatezza nei riguardi dei personaggi e che, anche se occultata, si riporta sul palcoscenico con i caratteri della storia.
L’improvvisazione in prova nasce dalle immagini di due foglie fresche che si trasformano lasciandosi essiccare. Traducendo quella prima percezione della natura, la Iacozzilli ha gettato le fondamenta del racconto, un’infinita attesa di un uomo da parte di due donne rattrappite, madre e figlia, che in quel lasso temporale sciolgono le tensioni del loro rapporto.
Per dare vita al processo di essiccazione sono state sviluppate sessioni di esercizi sensoriali in modo che il movimento scenico potesse legarsi al movimento delle foglie, recuperandone una qualche connotazione umana.
Ripercorrendo le tracce di questi lavori, ci si immerge alla conquista di un mondo fatto di immagini concrete e dirette, abitato da pupazzi, da musica e silenzio, uomini e donne in armonia con gli oggetti e la materia loro vicina, e che nel suo prolungamento tende alla ricerca di un’emozione, l’emozione che il teatro di Fabiana Iacozzilli consegna con rispetto, fascino e innovazione.