chiude il Workcenter Of Jerzy Grotowski and Thomas Richards

La fine di un’era e l’inizio di nuovi cammini: chiude il Workcenter Of Jerzy Grotowski and Thomas Richards

«404. Component not found»

È questo il modo attuale per sottoscrivere un’assenza, un lutto. Qualcosa che c’era, oggi non c’è più, non si trova tra le fittissime maglie di internet, che tutto sa e tutto constata. Non fa differenza l’importanza delle parole che seguono quel “www.”: che sia un grande nome o un piccolo nome, comunque non c’è possibilità di sfondare quella sentenza di morte priva di spiegazioni e – ancor peggio – non c’è nessuno che ti avverta: finché, per una qualche ragione, non digiti quel sito e non ti ritrovi davanti a una «404. Component not found» rimani esente dalla perdita.

I più fortunati, chi ha tra le proprie conoscenze (reali o virtuali) un contatto diretto con chi o cosa ora non c’è più, potranno imbattersi casualmente nella notizia sui social.

Del resto, si sa che quando c’è il teatro di mezzo la cosiddetta fuga di notizie ha le ali tarpate fin da principio. L’eco non ha via d’uscita, nessuno ostacolo su cui rimbalzare e si ritrova intrappolata in spessi tappeti fonoassorbenti.

Oggi però è necessario mettersi al centro di una vallata circondata da monti e gridare ciò che Thomas Richards e Mario Biagini hanno – separatamente – comunicato tramite newsletter: il Workcenter di Jerzy Grotowski e Thomas Richards chiude. Ecco il lutto, l’assenza da comprendere e che non può sparire dietro un «404. Component not found». Perché il Workcenter con sede a Pontedera, fondato dal maestro polacco nel 1986 su invito dell’odierna Fondazione Pontedera Teatro rappresentata da Roberto Bacci e Carla Pollestrelli, era l’avamposto di gran parte della cultura del Novecento teatrale.

Non ha bisogno di troppe presentazioni. Del resto, che senso ha presentare ciò che non esiste più? Eppure, proprio perché «not found» è traducibile in modo meno freddo con un «tristemente svanito nel nulla», il Workcenter ha bisogno di essere ricordato. E se ognuno ha quel che si merita, di sicuro il Workcenter si merita di non cadere nel dimenticatoio. Anche se la sua storia ha trovato una conclusione, ripercorrerne qualche tappa tentando di sottolinearne l’anima ci sembra un primo passo verso la comprensione di ciò che c’è dietro alla scomparsa e verso la consolidazione di una memoria collettiva.

Dieci anni dopo la sua nascita, una piccola ma importante aggiunta al suo nome (da Workcenter of Jerzy Grotowski a Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards) formalizza ciò che nella pratica già accadeva: il ruolo fondamentale di Richards nella direzione del Workcenter, la casa immersa nella campagna toscana che si occupa dell’art as a vehicle, l’ultimo anello della catena delle performing arts alla cui altra estremità si trova l’arte come presentazione. Il Workcenter nasce proprio con la volontà di soffermarsi sull’arte come veicolo, definita dallo stesso Grotowski anche “arte rituale” in cui «gli elementi dell’Azione sono gli strumenti di lavoro sul corpo, il cuore e la testa degli attuanti […] Ne L’arte come veicolo l’impatto sull’attuante è il risultato. Ma questo risultato non è il contenuto; il contenuto sta nel passaggio dal pesante al sottile» [J. Grotowski, 1989]. C’è qualcosa di mistico che sfonda le pareti del teatro, che richiama culture diverse e che soprattutto sposta l’asse dall’attore all’individuo, dalla ricerca teatrale alla ricerca interiore. La performance allora non è altro che incarnazione di processi: è trasformazione, metamorfosi, è il segno lasciato dall’effimerità della vita.

Con questi presupposti nasce il Workcenter, olimpo teatrale del Novecento, che si dedica da un lato all’educazione permanente dell’attore, dall’altro all’’arte come veicolo, dove le persone coinvolte non sono considerati attori quanto doers (attuanti), proprio perché il terminale ultimo non è più lo spettacolo né lo spettatore.

Qui fino al 1993 organizza le proprie attività secondo due linee di ricerca corrispondenti a due gruppi distinti: Upstairs, guidato da Maud Robart, e Downstairs, guidato invece da Thomas Richards. A causa di un taglio delle risorse, imputabile alla generale crisi economica dei primi anni Novanta, sopravvisse solo l’ala diretta da Richards, collaboratore ormai sempre più essenziale per Grotowski, tanto da modificare la denominazione del centro e soprattutto tanto da fare di Richards l’erede ufficiale. Ma «non si è trattato di un atto testamentario. Piuttosto, del compimento di una vita, e di un contatto profondo, reciproco tra due persone» [M. Biagini, 2000]. Burocraticamente parlando, dopo la morte del maestro polacco avvenuta  nel 1999, il Workcenter passa sotto la direzione artistica di Thomas Richards accompagnato dalla preziosa presenza di Mario Biagini nelle vesti di direttore associato. D’altro canto, le intenzioni di Grotowski erano chiare: «Poco tempo fa qualcuno mi ha domandato: vuoi che il Centro di Grotowski, dopo la tua scomparsa, continui? Ho risposto di no, unicamente perché rispondevo all’’intenzione della domanda; a mio parere l’intenzione era: vuoi creare un Sistema che si fermi nel punto in cui la tua ricerca si fermerà e che poi venga insegnato? È per questo che ho risposto “no”. Ma devo riconoscere che se l’intenzione fosse stata: vuoi che questa tradizione […], vuoi che questa ricerca su L’arte come veicolo qualcuno la continui?- non avrei potuto rispondere con la parola “no”» [Grotowski, 1989].

In questa dichiarazione c’è Grotowski e la sua serena consapevolezza della caducità delle cose terrene. Ci sono le parole “tradizione” e “ricerca” che non sono mai punti di arrivo, ma tracce di trasformazioni del vivente. Entrano in ballo allora le questioni dell’eredità di Grotowski, della trasmissione e della responsabilità. Nell’operato del Workcenter dopo la morte del Maestro rimane Grotowski, “l’aspetto interiore del lavoro”, ma c’è soprattutto «un agire vivo che si adatta e si modella sulle possibilità e i bisogni della ricerca» [De Marinis, 2013]. Il teatro non basta a se stesso e nel consapevole itinerario di trasmissione tra teacher (insegnante e non maestro) e doer Grotowski sa che «ciò che resterà dopo di me non può essere nell’ordine dell’imitazione ma del superamento» tanto che «Richards non ha alcun obbligo nei miei confronti, non è obbligato a nulla salvo che ad essere fedele alla sua vita creativa e al suo itinerario interiore. Gli obblighi esistono solo nel presente, nel lavoro giorno per giorno» [De Marinis, 2013].

Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, Ph. di Ilaria Costanzo
Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, Ph. di Ilaria Costanzo

Richards e Biagini accolgono la tradizione di Grotowski, rispettandola e non dimenticandola mai, ma comunque facendola propria, lasciando che essa sia permeabile al presente e alle proprie circostanze; in sostanza incarnano quei “traditori” che lo stesso Grotowski si augurava diventassero. Non a caso nella fortezza del Workcenter a partire dagli anni 2000 la ricerca riavvicina i due anelli posti alle estremità della catena: teatro come presentazione e teatro come veicolo si incontrano, rispondendo alla domanda che Grotowski si poneva nel 1990 quando si chiedeva se entrambe fossero possibili nella stessa struttura performativa. Tuttavia è bene fare una precisazione: l’arte come veicolo rimane sempre al centro della ricerca, ma inizia ad aprirsi la possibilità di entrare a contatto con l’esterno. Succede infatti che a partire dal 2003, con la partenza del progetto triennale Tracing Roads Across sovvenzionato dall’Unione Europea nell’ambito del Programma di «Cultura 2000», il Workcenter inizia a portare avanti due rami di ricerca: da un lato An Action in Creation, luogo dove i partecipanti si concentrano profondamente sul proprio lavoro interiore, ma che – al contrario di Action – è una sorta di cantiere aperto, un work in progress in cui sono accolti pochi invitati testimoni; dall’altro c’è The Bridge: Developing Theatre Arts, in cui, senza mai dimenticare il lavoro per e sull’attuante, vi è una traccia narrativa costruita per lo spettatore. Durante Tracing Roads Across in sintesi la ricerca condotta da Richards e Biagini, pur rimanendo concepita per le persone che la fanno, inizia ogni tanto ad aprirsi all’esterno. Grotowski lo riterrebbe un tradimento? Forse, ma ben giustificato dal presente. Pare che ancor di più il teatro non basti a se stesso e abbia bisogno di una moltitudine di solitudini che si incontrano grazie alle attività programmate.

Nel biennio successivo le porte del Workcenter sono state aperte al New Stagiaires Program, progetto che ha coinvolto cinque persone per vivere e apprendere a contatto con nucleo artistico del centro.

Dal 2007 la storia del Workcenter si dirama: da un lato il Focused Research Team in Art as vehicle diretto da Thomas Richards e basato sulla ricerca dell’arte come veicolo e sul lavoro con antichi canti tradizionali; e dall’altro lOpen Program diretto da Mario Biagini, «una porta aperta al contatto con comunità e individui non necessariamente appartenenti al mondo del teatro». Entrambe le attività lavorano su un allargamento della presenza e quella militanza biopolitica di matrice grotowskiana non sia dimenticata in nessuno dei casi.

Intanto accade che nel 2015 la Fondazione Pontedera, di cui fa parte il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, confluisce nella fondazione Teatro della Toscana, teatro nazionale, diretto da Marco Giorgetti. Appuntiamo tutto questo e teniamolo a mente.

Perché per comprendere cosa si nasconde dietro alla chiusura del Workcenter procederemo per strati, grazie a una lettura incrociata delle newsletter di Richards e Biagini, o meglio – volendo rispettarne la cronologia, quella di Biagini (datata 1 gennaio 2022) e quella di Richards (che arriva trenta giorni dopo).

Sullo strato più superficiale (ma non per questo meno degno di considerazione, anzi!) in trasparenza c’è il Covid-19 che – come sappiamo – ha inferto una profonda ferita alle economie del settore teatrale italiano, da cui non è rimasto esente il Teatro Nazionale della Toscana. Puntualizza infatti Richards: «La direzione del Teatro Nazionale mi ha appena informato che nel 2022 intendono continuare a finanziare il percorso di arti performative che conduco, anche se non potranno più finanziare le spese del nostro storico spazio di lavoro a “Le Vallicelle” né provvedere al sostegno finanziario continuo con le stesse modalità di prima. Hanno proposto che il loro finanziamento fluisca progetto per progetto, per il quale sono profondamente grato.
L’appello del Teatro Nazionale a trasformare la nostra relazione inizialmente sembrava un inconveniente, poiché un risultato sarà che il Workcenter non sarà più in grado di sostenere una grande squadra di partecipanti impegnati nella formazione durante tutto l’anno». Una domanda sorge spontanea: perché un teatro nazionale come il Teatro della Toscana, attento sia al teatro di tradizione ma anche alla geografia policentrica della ricerca e dell’alta formazione, nonostante i tentativi di sopravvivenza, non riesce a proteggere uno dei simboli del teatro con la T maiuscola, quel teatro che va oltre al teatro stesso? Forse perché la vita ai margini del Workcenter non si adatta al sistema italiano, per di più ora oppresso dalla crisi pandemica? E quando parliamo di margini, ovviamente non ci riferiamo solo alla localizzazione geografica, tra le colline toscane, ma anche e specialmente al fatto che il Workcenter è votato fin dalle origini da un lato alla ricerca, a quell’arte come veicolo che per sua natura non ha bisogno dello spettacolo, degli spettatori, del botteghino e dall’altro alla formazione, che punta anch’essa più sulla qualità (è un percorso lungo e intenso) che sui numeri dei partecipanti».

La domanda pare legittima, nonostante nessuno dei due eredi della ricchezza grotowskiana ne abbia nemmeno sottilmente fatto menzione: Mario Biagini anzi dal canto suo vive la crisi sanitaria da un punto di vita strettamente umano e personale, tralasciando i devastanti aspetti economici ricaduti sul sistema teatrale e mettendone in luce piuttosto il cambiamento radicale di paradigma per l’individuo e la collettività: «La mia maniera di agire nel mondo deve rispondere a tali cambiamenti radicali in modo radicale, e non con piccoli adattamenti che mi permettano di continuare a fare le stesse cose in circostanze diverse. In questi nostri tempi le voci più forti, le certezze più solide, i movimenti provvisti di maggiore forza, sono spesso quelli legati a un diretto interesse personale, individuale o di clan, e alla divisione, alla polarizzazione, alla semplificazione e all’aggressione. Tutto ciò che va in una direzione diversa è fragile. E con questa fragilità, con i dubbi e le angosce proprie dei nostri giorni, come rispondere al presente e alla realtà di fronte ai miei occhi, in vista di un futuro possibile e pensando alle generazioni a venire?».

L’affermazione di Biagini, così intrisa di presente e di futuro, ci fa approdare al secondo strato: la necessità di guardare avanti nella volontà di scoprire i naturali sbocchi individuali. Il percorso di Biagini sembra piuttosto chiaro, dal momento che lui stesso espone l’intenzione di proseguire il cammino dell’Open Program facendolo confluire nella sua “Accademia dell’incompiuto”, «suscettibile di servire scopi collettivi e individuali, per realizzare azioni artistiche e sociali che possano aver senso per esseri umani appartenenti a mondi diversi»; un progetto indipendente da un forte afflato sociale e per la condivisione di intenti tra persone. Dall’altro lato Richards pare cogliere l’occasione di cambiamento, senza però sapere con certezza dove e come continuare a seminare e raccogliere. Confessa infatti: «Compirò 60 anni quest’anno e sto entrando in una nuova fase della vita. Mentre mi sforzo di capire le chiamate interiori di questa fase, incontro il bisogno di riflettere sulla pratica in cui sono stato impegnato negli ultimi 35 anni, per avere la possibilità di scoprire i suoi prossimi passi». In entrambi i casi ci troviamo di fronte a un cammino verso il nuovo, lo sconosciuto, che non mette timore, ma che anzi si dischiude a possibilità artistiche e personali in linea con i tempi – del mondo e delle singole vite. Richards a 60 anni e Biagini a 57 si mettono in gioco lontani dal Workcenter, volendo continuare a imparare, imparare «soprattutto a pensare» – specifica Biagini. Perché, come il teatro, la vita è qualcosa di mutevole, che contiene e risponde allo scorrere del tempo.

Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, Ph. di Ilaria Costanzo
Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, Ph. di Ilaria Costanzo

Il tempo. Il tempo sembra essere il velo che cela e nasconde un altro strato che giustifica la chiusura del Workcenter. In entrambe le lettere c’è la riconoscenza di un passato fatto di tappe e di un’esperienza che non è mai rimasta uguale a se stessa; c’è la potenza degli eventi. In entrambe le lettere si legge il racconto degli ultimi anni trascorsi insieme ma divisi: un’autonomia sotto lo stesso tetto, «una sorta di biforcazione del fiume all’interno del Workcenter» (per usare l’immagine di Thomas Richards), dove i due rami, sempre più distanti, avevano obiettivi ed esigenze divergenti, forse anche con un sentimento e un approccio diversi nei confronti dell’eredità del maestro polacco: responsabilità e trasmissione risuonano soprattutto nelle parole di Richards che ammette: «Ho sentito, e sento tuttora, non solo un enorme debito nei suoi confronti, ma un collegamento diretto tra ciò che mi ha “trasmesso” e il lavoro che ho condotto fino ad oggi». Le parole di Biagini, piene di riconoscenza, paiono invece meno schiacciate dal “peso” della responsabilità, cogliendo piuttosto le opportunità concesse a lui, «un passante tra altri passanti».

Eccoci all’ultimo strato, il più profondo. Quello in cui si intrecciano estetica e politica, vita artistica e vita personale, quello in cui la ricerca nel teatro è ascolto del mondo – proprio e collettivo. Un nodo spirituale, nel senso più vicino al concetto di trasmissione secondo Grotowski: un procedere oltre il teatro mediante il teatro, quel teatro che è stato il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, una casa con stanze collegate da scale, con una cucina in cui apprendere. Allora la chiusura del Workcenter possiamo considerarla come l’emblema di quel tradimento augurato da Grotowski: «bisogna  superare il proprio maestro di un quinto, del venti per cento, altrimenti la tradizione si deteriora […]. La trasmissione è quando è. Volerla controllare, anche dalla tomba è voler prolungare artificialmente la propria vita» [De Marinis, 2013].

Grotowski la pensava così e coerentemente, come doers a pieno titolo, Thomas Richards, Mario Biagini e il Workcenter stesso stanno battendo il medesimo cammino. Ecco l’eredità. Ecco la responsabilità. Sempre un passaggio, un processo e una tensione verso il futuro.

A noi rimane però un po’ di amarezza mista a profonda tristezza per la perdita di quel luogo dove ogni tavolo odorava di vita. Non è solo nostalgia. È piuttosto la spiacevole riconferma che, a prescindere dai percorsi di Richards e Biagini, si è in balia di una politica culturale più attenta a singoli progetti in grado di far numeri che a uno spazio fisico che ha sfondato innumerevoli spazi immaginativi nel corso dei suoi 36 anni di attività. È la sottoscrizione della fine di un’era non adatta a un mercato senza “tensioni verso”, bensì aggrappato a un presente che si autodistrugge. Ma forse conviene richiamare per un’ultima volta Grotowski, che nel 1992 a Torino, durante un ciclo di lezioni, si era espresso sul coinvolgimento statale nel sostegno del teatro: «Se fossi un ministro probabilmente cercherei un sistema che mi permettesse di decidere equamente chi sovvenzionare e chi no, ma fortunatamente non ho questo compito» [Vacis, 2014].

Non abbiamo quel compito, ma senza dubbio quel faro ci mancherà.

A Thomas Richards e a Mario Biagini non ci resta che un augurio: ad maiora.

Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, Ph. di Ilaria Costanzo
Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, Ph. di Ilaria Costanzo

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