Capita spesso, nel tempo fugace della vita, che gli oggetti si permeano del ricordo del passato, e un istante perduto viene dilatato all’infinito. E così le cose diventano case: diventano luogo dove abita l’abbandono. Capita spesso, soprattutto a teatro. Ne è un esempio Piazza degli Eroi di Thomas Bernhard, andato in scena al Teatro Argentina di Roma dal 12 al 23 gennaio 2022, con la regia di Roberto Andò.
È proprio un oggetto, infatti, a catalizzare l’attenzione dello spettatore e a dar il via all’azione: la camicia del professor Schuster, morto suicida, tenuta in mano dalla signora Zittel (Imma Villa), la sua governante. E poi ancora altre camicie, un ferro da stiro, qualche armadio, un pianoforte, scarpe. Tante scarpe, ora a coppie ora spaiate, riempiono la parte anteriore del palcoscenico. Sono frammenti sparsi di una vita spenta, sono dettagli congelati di un uomo un dì ardente, la cui esperienza, seppur filtrata, viene rivissuta dallo spettatore grazie alle parole della governante, che rende gloria alla di lui memoria, rivolgendosi a un’altra ragazza di servizio. Aleggia, in ascolto, il fantasma del morto: porta delle valigie, tocca le scarpe, apre un libro, si siede al pianoforte. Le due donne lo elogiano, ne piangono l’assenza: è ancora troppo presente nel loro cuore e nella loro mente. La ragazza, forse nutrendo un’amorevole reverenza nei confronti del padrone, è quasi pietrificata; la signora Zittel, probabilmente per un amore più intellettuale e passionale, non può far a meno di ricordare, eppur è indaffarata, concentrata nello stirare, per non pensare, o perché quell’azione è l’unica cosa che resta del loro legame. Azione che rievoca il ricordo di quel sentimento taciuto e nascosto, ma anche di quell’uomo onesto, che solo con la morte ha dato pace a se stesso. Nel 1938 Hitler, in Piazza degli Eroi, ha annunciato l’annessione dell’Austria alla Germania, e ora in quella casa, che si affaccia proprio su quella piazza, resta l’eco di quel tempo paralizzato. È un’eco molto viva e fisica quella che si presenta come allucinazione uditiva nella moglie defunta (Betti Pedrazzi), la quale è descritta dai personaggi come in preda a un delirio. Farà il suo ingresso in scena solo nell’ultimo atto, quando, riuniti i parenti intorno alla tavola da pranzo, attraverso l’uso delle luci e dei suoni che richiamano le voci della piazza, verrà messa in scena la sua pazzia.
Un taglio più poetico viene dato al II atto: dopo il funerale del professore, suo fratello Robert (Renato Carpentieri), nel suo incedere lento, quasi a ritmo con le foglie autunnali della scenografia, le quali cadono, a intermittenza, dall’alto, filosofeggia con le nipoti, ovvero con ogni spettatore, trasportandolo e cullandolo in quelle vive parole di morte e dolore. Il dolore, secondo il Nostro, è l’unica dimensione possibile della vita, e la morte è la meta: la musica e la poesia sono solo una consolazione a un’inevitabile melancolia.
Ma se la mia serata è stata allietata e l’idea della morte un po’ addolcita, allora, forse, anche solo per un attimo, la sofferenza della vita è stata sublimata: l’Eterno c’è stato, si è manifestato, in quel tempio sacro chiamato teatro.
Crediti
Piazza degli Eroi
di Thomas Bernhard
traduzione Roberto Menin
regia Roberto Andò
con Renato Carpentieri, Imma Villa, Betti Pedrazzi, Silvia Ajelli, Paolo Cresta, Francesca Cutolo, Stefano Jotti, Valeria Luchetti, Vincenzo Pasquariello, Enzo Salomone
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
suono Hubert Westkemper
aiuto regia Luca Bargagna
assistente alle scene Sebastiana Di Gesù
assistente ai costumi Pina Sorrentino
amministratrice di compagnia Angela Carrano
foto di scena Lia Pasqualino
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Nazionale
Nella foto di copertina, Renato Carpentieri, foto di Lia Pasqualino