Non Cipro, ma l’arena di un circo di polvere e di legno scricchiolante, delimitato da tribune su cui siederanno gli spettatori, non il giovane gentilhomme veneziano Roderigo a tessere il primo verbum tragico, ma un imbonitore chiassoso e beffardo che accoglie l’uditorio, non la conquista del grado di luogotenente da parte di Cassio, ma del ruolo di direttore del circo. Iago è un tiratore professionista di coltelli, i quali sfrecciano senza mai colpire un Otello-bersaglio, al contrario di come saranno, invece, mortiferi, per lui, gli inganni, le parole melliflue che Iago sferra nell’aria con altrettanta professionalità. Emilia è una spigolosa acrobata in abiti da ballerina, il cui corpo si distende, accascia sotto la gravosità del suo stesso peso labile su di un’altalena, in un moto oscillatorio perpetuo, reiterato, fragoroso e delicato ad un tempo. Desdemona si fa equilibrista, Cassio un clown vanesio e sprezzante. La tragedia del Moro, in Otello Circus, migra in un mondo fuori dal tempo, scontornato, nell’arena del circo degli esseri umani in cui sfilano e offrono spettacolo passioni, peccati, ambizioni, menzogne, i mostri della mente, gli abbagli, gli errori insanabili, l’amore, quello folle, soffiato dal vento, come intonava la voce di Domenico Modugno. La drammaturgia shakespeariana viene contratta dalla regia di Antonio Viganò, diviene osso a cui resta aderente solo la carne magra, essenziale che disegna la discesa tragica di ogni personaggio nell’abisso del sé: la catabasi di Otello, la sua caduta libera negli inferi si propaga, divenendo il dramma di tutti.
La scena si apre, difatti, con il Moro immobile al centro della pista, interpretato da un travolgente Rodrigo Scaggiante, dal suo corpo tiranno e dai suoi gesti sincopati, sineddoche della sua follia progressiva, dalle sue urla mute e dalle parole faticosamente pronunciate: una gabbia carnea dispotica perfettamente coerente alla drammaturgia, ancora prima di essere esperita come difficoltà esistenziale vera e propria. Ogni personaggio che abita l’atmosfera grottesca, felliniana, di questo circo attende il farsi della tragedia di Otello: sera dopo sera, ogni maestranza la inscena da capo, piegandosi ai suoi esiti inevitabili; i soggetti divengono giocattoli dismessi, esauriti nelle loro funzioni, relitti da soffitta di un carillon rotto, affaticato che reitera la medesima melodia, inceppandosi sulla solita nota. Tuttavia, nessuno si concede il privilegio della noia. Allo spettatore si deve offrire uno spettacolo memorabile: ogni personaggio anima con vitalità ciascuno snodo del dramma come fosse la prima volta, anche se ad avere dimora in quell’arena sono, in realtà, solo fantasmi.
A dispiegare la potenza del corpo e della parola sotto lo chapiteau, immaginario o sognato, del circo di Otello sono gli attori della compagnia professionale Teatro la Ribalta – Kunst der Vielfalt, costituita da attori e attrici con e senza disabilità. Le note di Verdi risuonano, invece, sotto gli impulsi dell’Orchestra AllegroModerato, composta da cinquanta musicisti con disabilità psichica, mentale e fisica e musicisti professionisti, accompagnati dalle voci di Paolo Cauteruccio, Francesca Pacileo e Jesus Noguera. Ma tale dis-abilità, nella restituzione performativa, non si connota mai come oggetto di riflessione: è essa stessa a tessere, essere la riflessione, proporsi sintatticamente come possibilità relazionale. Non è oggetto del discorso, ma è il discorso stesso che prende l’avvio senza mai la pretesa di esaurirsi, tracimare, ricadere su di sé. I corpi degli attori sono per certo espliciti, eloquenti sin dall’atto di presentazione, ma lo sono al pari di ogni altro corpo che assuma su di sé la responsabilità di mostrarsi nudo a un occhio che osserva, nel suo stato di verità, di trasparenza. A fare da interpreti, traduttori della relazione con lo spettatore si pongono perentori i mezzi dell’arte, un’arte sottile, levigata, qualitativa che non concede alcuno spazio all’incertezza: il pregio artistico degli attori di Otello Circus inchioda sulle tribune degli spettatori la minaccia del sentimentalismo commosso e a fare da garante a questo equilibrio è proprio la brutale, spiazzante sincerità con la quale ciascuno di loro esibisce, mostra la propria identità e la propria ferita. Mai esposta morbosamente, questa diviene chiave di accesso a uno stato altro, a un corpo altro, a una parola altra attraverso la lavorazione, il processo di un raffinato artigianato teatrale e attorico che consente alla ferita di farsi energia eversiva. Così, Desdemona acrobata (Marika Johannes) si appresta a eseguire il suo numero, camminando su un segmento di scotch steso per lei a terra: in una mano stringe un ombrellino, l’altra tesa e tremante alla ricerca del contrappeso che si opponga al disequilibrio. Senza mai staccarsi dal suolo, Desdemona vola, sfondando il soffitto dello chapiteau-che-non-c’è: ne hanno chiara coscienza i suoi compagni, i quali assistono al numero con paura, eccitazione e gli occhi rivolti verso l’alto. Desdemona è lassù che si trova.
«Guardatevi dalla gelosia, mio signore! È un mostro dagli occhi verdi che si diletta del cibo di cui si nutre», ammonisce il fraudolento Iago rivolgendosi a Otello. Da suono di tarlo che erode il legno e gli anfratti segreti, proibiti della mente, la follia di Otello prolifica come cellule cancerogene, fino al parossismo del gesto e della voce: Scaggiante si percuote la testa, inciampa nei fonemi, esige prove del tradimento di Desdemona dal suo alfiere-lanciatore di coltelli. La sua articolazione della parola suda, fatica, dipingendo i tratti di un’impasse che spartisce con quello reale, fisico, esistenziale dell’attore solo il corpo di appartenenza: quella che si manifesta è la malattia di Otello, è drammaturgia dell’azione, è il mostro dagli occhi verdi che, verace e testardo, detrae ossigeno vitale a un amore puro. Così, Desdemona muore uccisa da Otello, mentre i compagni del circo la circondando di scotch, facendole aderire alle vesti le stesse rose che erano state, nelle scene precedenti, suggello del suo amore con il Moro.
La regia di Viganò, attraverso la potenza evocativa del simbolo, semplice e trasversale, firma i versi di una poesia violenta, sanguinante, plasmata su corpi e materia. I plurimi strati di scrittura della scena e le drammaturgie che, fondendosi, la erigono, interpellano e convocano gli spettatori, rompendo di continuo il vetro di una parete che non è mai stata edificata fra questi e gli attori. Così come il movimento scenico del polveroso lampadario, dapprima imperante sulla figura di Otello e poi fatto roteare vorticosamente da Jago lungo tutto il perimetro dell’arena. La sua luce scopre tutti, uno ad uno, non vi è un brandello della penombra della platea che possa consentire di permanere in una condizione di rassicurante osservazione: una volta denudati, quanto si manifesta in scena inizia a pulsare nelle ferite di ognuno. Il moto circolatorio del lume si acquieta, dimezza la sua circonferenza, oscilla fino alla stasi, raggiungendo Otello al centro della scena, come al principio. Irrevocabile, su di lui si spegne. Dopo aver mosso passi incerti nel pieno regime del disequilibrio sui fili di trapezi, immaginati o sognati e per questo più potenti del dato reale, il circo porta a compimento ancora una volta la sua tragedia, preparandosi a un nuovo prologo laddove è stato tracciato il punto dell’esodo. Tutto il mio folle amore, lo soffia il cielo, lo soffia il cielo, così…
Otello Circus
di Antonio Viganò Premio UBU 2018 – progetto speciale assegnato ad Antonio Viganò e TEATRO LA RIBALTA – KUNST der VIELFALT “Per la qualità della ricerca artistica, creativa e politica in ambiti spesso marginali e con attenzione capillare alla diversità” Con Rodrigo Scaggiante, Mirenia Lonardi, Matteo Celiento, Maria Magdolna Johannes, Jason De Majo, Michael Untertrifaller, Daniele Bonino, Rocco Ventura Con l’Orchestra AllegroModerato: Luca Baldan, Davide Bagliani, Chiara Mauri (percussioni), Gregoriana Pirotta (flauto), Miriam Marcone (clarinetto), Alessio De Paoli e Riccardo Masciadri (contrabbasso), Pinuccia Gelosa (pianoforte), Costanza Cucuzzella, Marco Sicca, Maria Pia Abate, Pietro W. Di Gilio, Pasquale Prestinice, Jacopo Wiquel, Michela Piccolo (violino), Andrea Stringhetti e Giulia Garitta (violoncello), Marco Sciammarella (Glockenspiel), Stefano Ballardini (xylofono) Con i cantanti Paolo Cauteruccio (tenore), Francesca Pacileo (soprano), Jesus Noguera (baritono) Scene e regia Antonio Viganò Orchestrazione e direzione musicale Marco Sciammarella, Pilar Bravo Collaborazione artistica Antonella Bertoni Costumi Roberto Banci – Sartoria teatrale Tirelli – Roma Light design Michelangelo Campanale Direzione tecnica Andrea Venturelli Direzione di produzione Paola Guerra Foto di scena Vasco Dell’Oro e Marzia Rizzo Distribuzione Claudio Ponzana Produzione Teatro la Ribalta, Lebenshilfe Südtirol In collaborazione con Orchestra AllegroModerato, Olinda – Festival “Da vicino nessuno è normale” Con il sostegno di Fondazione Allianz Umana Mente e Fondazione Alta Mane Italia Con il contributo di MIBACT, Comune di Bolzano, Provincia Autonoma di Bolzano-Alto Adige Il progetto è nato all’interno del Corso Professionalizzante “Arte e Mestieri della Scena” del Fondo Sociale Europeo – Provincia Autonoma Bolzano