«Ah, il vecchio autobus delle sette, fermo
al capolinea di Rebibbia, tra due
baracche, un piccolo grattacielo, solo
nel sapore del gelo o dell’afa…»
Non è che uno dei mille scorci di Roma tra le pagine di Pier Paolo Pasolini, che da non romano l’ha percorsa, vissuta e descritta nelle sue tante facce, di fasti e brutture, di acquedotti e baracche, di borghesi e disgraziati.
È noto: il 2022 è il centenario della nascita dell’intellettuale e poeta Pier Paolo Pasolini. Mostre, eventi, iniziative, pubblicazioni, ovunque si inciampa in un bando che promuove, che commemora con spettacoli ed eventi che speriamo non si rivelino mordi e fuggi, take away, usa e getta. Quanto di più lontano si possa immaginare da un uomo che ha lottato con opere e parole contro il consumismo.
È difficile raccontare un uomo così complesso, così contraddittorio, così rivoluzionario eppure reazionario, che assai spesso viene esposto come un santino, consegnato a quella che Roland Barthes direbbe «una mitologia rassicurante o espiatoria, adatta a far superare le paure o a sacrificare i rimorsi» di una certa borghesia (di sinistra). A occhio e croce non è cosa facile. Eppure, dopo esser stati al Teatro Vittoria di Roma per Museo Pasolini di e con Ascanio Celestini, non sembra nemmeno una cosa troppo difficile. Celestini ha quel suo modo, allo stesso tempo, scarno e colorito di narrare, popolare e politico, romano e universale; sorride e racconta le crepe di un secolo intero sorseggiando un po’ d’acqua. Una sedia, una porta, qualche luce, senza ampollose illusioni, un teatro in cui, pur essendoci un narratore, direbbe ancora Barthes, «è lo spettatore a fare lo spettacolo». Si propone al pubblico come la guida di un Museo Pasolini, promette un rigore cronologico che mantiene e supera, riuscendo a moltiplicare all’interno i piani narrativi, mischiando documenti e fantasie senza perdere mai di verità.
Non si tratta di uno spettacolo commemorativo, anzi: una volta finito, qualcuno tra il pubblico mormora che in fondo c’era poco di Pasolini, meno di quanto ci si potesse aspettare. E in effetti c’è una sola delle sue poesie, la prima scritta da bambino e poi perduta, non ci sono focus sui romanzi, qualche accenno al cinema. C’è però la morte del partito comunista, lo stragismo, i partigiani, le case occupate del Quadraro. Come è solito per Celestini, i racconti contengono altri racconti, e altri racconti ancora, una matrioska di “storie di vita” e capitoli di Storia, frutto dello studio, del lavoro di documentazione che Celestini fa a partire dal mondo dei contadini friulani, per finire nelle pagine nere dei libri di storia contemporanea. Sceglie, Celestini, di non confinarsi nel biografismo, ma di stringere il nodo che lega l’individuo al suo contesto, raccontando Pier Paolo Pasolini, nella sua inquietudine, nel suo migrare, e persino nel suo morire, come uomo che è prodotto della Storia, e nello specifico, del Novecento. Ucciso dal suo secolo. Spicchi di racconto sono comici-amari squarci di Roma, cara sia al Poeta che al Narratore; e momenti sono invece di affondo politici, “di sinistra” – dice la signora a fianco a me. Sì, ma non rassicuranti. Sfida il torpore, la narcolessia, l’isolamento, con pochi e chiari gesti che trovano spazio nel magma di parole.
Tutto questo Celestini lo racconta con affettuosa leggerezza, lo camuffa da ricordo, racconta delle volte in cui «ho incontrato Pier Paolo Pasolini»: è un’immagine immaginata, il Pasolini di quei versi da cui siamo partiti, che sale sul bus 109 sulla Tiburtina, e guarda Roma fuori, quella Roma di baracche e acquedotti, e che mostra a un Ascanio-curioso compagno di viaggio.
Il ritratto a Pier Paolo Pasolini è di Sandro Becchetti