Negli spazi stretti di uno stesso palazzo, pezzi di vite fanno il loro ingresso. Sono persone a cui resta solo un nome: raccolgono i resti di un tempo perduto, accecate dal ricordo di mostri del passato. Destinate a essere dimenticate, vivono nell’inerzia di una casa che diventa prigione, riflesso della gabbia interiore. A raccontare queste storie è la Compagnia Ragli in Chi niente fu (non dirà niente) di Giuseppe Pipino, andato in scena a Roma allo Spazio Rossellini il 15 marzo 2022, con la regia di Rosario Mastrota. Una sola attrice in scena, Dalila Cozzolino, dà voce a Carmela, Marino ed Elvezia, le cui esistenze sono straziate all’interno di case isolate. Le tre storie sono inframmezzate da una lampadina che scende dall’alto e fa luce sul palco, accompagnata da parole che prendono forma in voice over: è la voce della casa che parla, che rivela di essere salvezza, ma anche condanna.
La prima è Carmela: una sola sedia in scena. Carmela trascina la borsa della spesa, come trascina la vita, nell’infinita persistenza del rimpianto, nell’esistenza spenta da un passato che ha segnato i passi che non ha mai fatto. I piedi diventano un’ossessione: in quel tentare di camminare ma non volersi sporcare, non volersi far male, non voler uscire davvero dal nido che la allontana dalla paura, ma la rende ora insicura. Si rivolge al fratello, che dalla mamma era sempre stato protetto: lui, che a causa di una malformazione i piedi non li poteva usare, era sempre amato e considerato, mentre per lei essere “normale” diventava quasi un peccato.
Marino entra cantando, dando immediatamente prova di una vitalità dirompente, repressa non solo dalla società, ma dalla famiglia stessa, che non lo accetta. Non accetta la sua omosessualità, è costretto a portare da solo il peso di quella «bestia di femminilità» che gli grava addosso, gli incurva la schiena. Un senso di frustrazione interiore esplode in sbalzi d’umore: femminile e maschile si incontrano, si fondono, si trasformano l’uno nell’altro, in un essere che perde un’evidente categorizzazione, un essere che è solo amore in quel ricordare quanto dolore gli abbia inferto il suo amante nel fingere che tra loro non fosse successo niente. Qui la scenografia prende vita nel colore: un filo, appeso da un lato all’altro del palco, dove sono stesi vestiti da donna; il busto di un manichino con un reggiseno, unico oggetto sessuale che Marino può toccare.
Elvezia, figura anziana e stanca, entra strisciando a fatica, incassa i morsi della vita; eppur una speranza le resta nella rimembranza. Ricorda «il giorno delle rose», ripensa all’amore che le diede un dolce rumore, quando era giovane. Ora l’unico suono che sente è quello di parole nel vento: dolore, sesso, guerra. Si alza da terra, con le mani cerca di aggrapparsi per salvarsi, si arrampica in un traliccio di ferro, la cui struttura, che ricorda una gabbia, rende ancora più intenso il senso di reclusione e isolamento. Tenta di liberarsi, salendo sempre più in alto, ma fuori un soffocante fumo la consuma. E muore, nell’uscire. Muore, perché quell’aria non la sa respirare. Muore nell’eterno congelato presente chi in passato fu niente.