A valle dello spettacolo "Mumble Mumble atto II", Umberto Giustozzi ha intervistato per noi Emanuele Salce.
Vorrei iniziare con una domanda che sicuramente ti hanno fatto tutti, spero che non ti dispiaccia: quanto è stato difficile essere un “doppio” figlio d’arte?
È una possibilità, se te ne sai servire: può essere quindi una risorsa oppure una condanna.
Per gran parte della mia vita, non avendo risolto molte cose per lungo tempo, è stata sicuramente una condanna che mi sono un po’ auto-inflitto. È vero che le condizioni intorno a me non erano delle più incoraggianti: non sono mai stato di quei figli d’arte portati sul luogo di lavoro dai miei genitori. Sul set di mio padre ci sono stato credo due volte in vita mia, forse tre. Altre volte sono finito nei camerini di un qualche teatro, del resto era quello il mestiere che faceva il marito di mia madre, Vittorio. Nessuno, per così dire, mi ha mai messo in arte, nessuno mi ha mai nemmeno parlato di questa possibilità anzi, ove possibile, mi hanno scoraggiato: mi dicevano che non era un mestiere, che era una roba strana, che dovevi sentirlo dentro di te. Mentre al contempo vedevo i miei colleghi “figli d’arte” che invece ci salivano su questi carrozzoni di famiglia, e intraprendevano la carriera più o meno consapevolmente.
So che a un certo punto mi sono convinto che in effetti uno dovesse intanto essere veramente convinto delle proprie scelte e che per esserlo a fondo, queste dovessero essere basate su un qualcosa di concreto, cioè sull’esperienza. Voglio dire: come fai da giovane a dire “da grande voglio fare il perito agrario” oppure “voglio fare l’ingegnere nucleare”? Come fai a dire “da grande mangerò la zuppa con i cardi” se non l’hai mai assaggiata? Ecco, ho sempre pensato che a un certo punto della mia vita avrei dovuto assaggiare un po’ di cose per capire che sapore avevano e se mi piacevano. Dopo i miei vent’anni, dopo aver fatto il militare, ho cominciato a fare una cosa, poi un’altra… Oggi dico ironicamente “ho fatto trecento cose finte per non farne una seria”. Mettevo in atto il procedimento di “assaggiare”: ho fatto il pilota di aeroplani, l’assicuratore, lo studente di una facoltà e poi di un’altra, mentre facevo l’assistente da una parte e poi dall’altra… insomma, provare! Ho capito che poi la grossa matassa da sbrogliare era dentro di me, e che me la sarei portata appresso sempre e indipendentemente dal mestiere che avrei fatto. Ha pesato, sicuramente, il fatto che i miei “padri” fossero degli artisti di successo, mentre sull’essere padri hanno certamente investito meno. Diciamo che ci si dedicavano nei ritagli di tempo, che erano comunque pochi. Soltanto alla soglia dei miei quarant’anni, come hai visto che ho raccontato anche in questo spettacolo cui hai assistito [Mumble Mumble atto II, n.d.r], ho deciso poi di mettermi un po’ più in gioco io.
Solo da adulto mi sono preso la responsabilità, diciamo… Del mio palato (delle mie papille gustative… ) e ho potuto dire “sì mi interesserebbe fare quello” indipendentemente dal fatto che avrei potuto avere o no successo: lo faccio perché mi piace, perché per me ha senso. Per me non ha senso andare su un palco a mettermi in mostra, e dire due cose qualsiasi, magari anche sensate, magari “d’autore”, se poi tutto questo non significa qualcosa per me in quanto essere umano. Uno deve liberarsi a un certo punto dei pesi imposti dagli altri e alleggerire la zavorra. Non devono esserci più gli alibi che ti frenano nel fare le cose, ma portarsi appresso solo bagagli utili, che abbiano un senso.
Da quanto mi hai appena detto, il teatro può essere inteso come una sorta di “cura” per capire te stesso? Per te è stata un’introspezione?
Certo, il teatro è più di una possibilità. Come tutte le cose, conta l’uso che ne fai: il teatro può avere questa valenza anche catartica, perché in fondo se porti in pubblico un tuo testo autobiografico, può sembrare anche apparentemente un qualcosa di egoriferito e probabilmente non necessario, ma che poi invece, incredibilmente, lo è. A me piace molto questa doppia valenza del teatro. Diventa come una sorta di terapia di gruppo. Per quanto venga mantenuto intatto il gioco del teatro, cioè il gioco della finzione per antonomasia, in quel momento io non sono me stesso: sono un attore che interpreta sé stesso, che non è la stessa cosa. Devo recitarmi ed essermi al contempo. Veicolando una autenticità, ovvero la mia verità. Quindi nel rispetto delle regole del gioco, e del luogo dove questo si svolge, il Teatro, io raggiungo questa possibilità ulteriore di introspezione, di comunicazione e anche di empatia che poi avviene nei confronti della platea. Se riesci a essere onesto fino in fondo e a dire la verità, allora può accadere questo piccolo miracolo laico di creare un ponte di comunicazione emotiva con l’altro. Poiché non deve avere senso solo per te, ma deve averlo anche per gli altri. E il senso ultimo è proprio che questo senso ci sia per entrambi.
Cos’è il teatro per te?
Potrei riassumere più o meno tutto quello che ti ho detto fin qui: il teatro è questa possibilità che ho di poter completare la mia esistenza di uomo. Quindi, in fondo, io quasi abuso del teatro: ne approfitto, però nello stesso tempo dandomici. Per me è la possibilità di comunicare, di creare dal vivo un’interazione che non puoi avere né al cinema né in televisione.
Il teatro è una necessità, ma anche un piacere e una responsabilità. È tante cose, perché è un percorso parallelo a quello della vita che in qualche modo lo completa, mentre io completo un po’ lui; diciamo che da questo punto di vista c’è uno scambio biunivoco.
Per me il teatro può essere tante cose. So che ogni volta che vado in scena, ho la possibilità di capire qualcosa in più di quello stesso testo che ho scritto; spesso basato su cose che ho vissuto e sulle quali ho già riflettuto, ma che ancora una volta, portandole a teatro ogni sera, mi vien consentito di entrare in quei canali emotivi, in quelle zone del ricordo, della psiche, per cui riesci a implementare quel ricordo, a comprenderlo meglio, a elaborarlo. E poi ogni sera non è mai uguale all’altra.
Molta gente dal di fuori dice: “ma come, ma non ti annoi? Tutte le sere la stessa cosa, dire le stesse fregnacce, tutte uguali… ”. Questa è la percezione che ogni tanto si ha dal di fuori. In realtà no, è quell’esperienza che tu fai di te stesso stando su un palco, quella credimi, non è mai uguale, ma così ricca di sfumature che ogni replica è praticamente una “variante” diversa.
Perché hai voluto raccontare te e la tua vita sulla scena? Ed è stato facile o difficile?
Per quello che mi riguarda è nata molto per caso quando dodici anni fa decisi di mettere in scena un mio testo, che era anche autobiografico e che narrava il giorno in cui era morto mio padre e poi, per par condicio, l’altro mio padre… E poi un altro momento assolutamente tragico, come quello di un infortunio scatologico del quale io sono stato diciamo vittima a trentatré anni… A seguito di una overdose di lassativi… Che però era la vera parte tragica dello spettacolo secondo me, e secondo me anche la più difficile da rappresentare.
Nasce, allo stesso tempo, per gioco, necessità e desiderio di confrontarsi, di mettere alla prova le proprie capacità. Come diceva Ionesco: “tutti gli uomini recitano, tranne alcuni attori”.
Esistono due tipi di attori, due approcci diversi al mestiere. Alcuni si “inguattano” in un personaggio senza andare a ricercare quella parte di verità di sé che riguarda quel personaggio, e attraverso la tecnica fanno comunque benissimo la professione. Altri invece, esseri umani più curiosi e più incasinati, cercano sempre nei personaggi quella parte di se stessi che vi aderisce, anche quella più scomoda, anche quando fai dei ruoli di delinquente, di assassino, di pedofilo, di ciò che apparentemente è più distante da te. Ma ripeto: solo apparentemente. Perché se poi vai a frugare dentro, i colori della tavolozza ce li abbiamo tutti. E se poi metti quella tua verità nel personaggio senza stare a criticarlo, o a prenderne le distanze, nè a temere di essere scambiato per il personaggio… Ecco, se superi questa parte, secondo me puoi fare una lavoro migliore.
Che consigli daresti a un giovane che vuole intraprendere la carriera di attore?
Ne so molto poco perché io l’ho intrapresa quasi da vecchio e in età pensionabile. Come per tutte le cose della vita io gli direi intanto di provare, perché non saprei quale altre cose sensate dire: mettersi in gioco e di provare la cosa, tanto non c’è nessun altro modo di capire se la pasta e fagioli ti piace se prima non l’assaggi. Poi è anche vero che la pasta e fagioli mangiata a vent’anni non ha lo stesso sapore di quella mangiata a trentacinque, né di quella mangiata a settanta. Perché siamo in costante evoluzione, cambiano le nostre consapevolezze; e certe spezie che non trovi gradevoli a vent’anni magari ti piacciono a cinquanta… Insomma, gli direi semplicemente: “vai e sperimentati”. Che oggi poi lavorare è difficile, in tutti i campi.
Tieni conto che è un mestiere per niente generoso, perché non bisogna confondere questo mestiere con i Divi; fare l’attore vuol dire essere uno di novecento che fanno questo mestiere, con grande difficoltà, e che tu non conosci; è come dire “vorrei fare il calciatore”, però non c’è solo Ronaldo, Messi… C’è anche la serie C, c’è l’interregionale, c’è la serie D… E non bisogna farsi abbagliare dallo specchietto… Solo uno su mille, come in ogni altro campo, arriva agli onori della ribalta. Ma quella è un’altra cosa, una casualità… Il mestiere spesso è essere attori sconosciuti… Tu vai a vedere uno spettacolo e non sai neanche come si chiamano, vedi lo spettacolo, esci e non sai ancora come si chiamano e non lo saprai mai, però magari sono stati bravi e loro sono felici di fare quello che hanno fatto.
Come vedi la scena teatrale italiana?
Adesso come adesso ci stiamo lentamente riprendendo dopo una batosta terribile; perché veramente hanno chiuso la metà dei teatri, che già erano in sofferenza da molti anni, e che già, come in molti casi, non avevano contributi da parte dello Stato. E non è detto che sia finita, perché se prosegue la guerra con l’aumento dei costi energetici, c’è il rischio che molti teatri l’anno prossimo potrebbero non avere la forza di scaldare le sale.
Il teatro lo vedo in grande difficoltà, ma mai morto. Come dicevo prima, finché ci sarà questa voglia e questa necessità di interagire fra esseri umani, questa cosa sopravviverà. E finché non sarà impossibile, penso che in qualche modo riusciremo ad andare avanti. Magari cambierà un po’ di forma, saranno teatri più piccoli.
Oggi esistono ancora quelli della vecchia guardia, abituati però ancora al teatro di una volta: quando c’erano sovvenzioni di Stato importanti, che coprivano quasi tutto il fabbisogno dello spettacolo che spesso era già in perdita perché non si autosostentava con il solo costo dell’incasso. Allora c’erano Gassman, Carmelo Bene, Eduardo De Filippo, Albertazzi… Che producevano cultura, e quindi uno Stato responsabile qual’era il nostro metteva dei soldi a sostegno di tutto ciò. Oggi è rimasta la lirica, che ha quasi due terzi del Fondo Unico dello Spettacolo, e il terzo restante è da dividere fra tutti i teatri restanti d’Italia. Ci sono i teatri stabili, che hanno sovvenzioni statali; poi ci sono quelli di seconda fascia che prendono anch’essi dei sostegni, pur non come quelli di prima fascia. Ce ne sono altri che hanno dei manager molto bravi che riescono a trovare i fondi e a promuoverli in modo autonomo.
Oltre a tutti questi ci saranno sempre dei “partigiani”, delle possibilità anche in teatri più piccoli e con gente che magari si auto-sovvenziona, che lo fa per passione e necessità senza prendere una lira. Questa cosa secondo me esisterà sempre. In linea di massima però mi pare che la cultura sia stata completamente falcidiata e tolta dalle prime necessità. È chiaro che se scoppia il Covid-19 o se scoppia la guerra, le prime cose che vengono tagliate sono quelle ritenute superflue: e quindi fra un pacco di pasta o andare al cinema/teatro, è ovvio che queste ultime vengano sacrificate.
Quali altri progetti hai in mente per il futuro?
Come sai si naviga sempre un po’ a vista. Sicuramente l’anno prossimo riprenderò Diario di un inadeguato e vorrei provare a farne una lunga tenitura qui su Roma, ma anche provare a portarlo fuori: ci dovremmo riuscire in qualche modo, e questo almeno per le prossime due stagioni. Poi… Non vorrei aspettare dodici anni per scrivere la terza cosa, e quindi tra un paio d’anni vorrei tentare un atto terzo della mia storia “mumblica” teatrale. Poi ci sono delle possibilità quest’estate: farò una commedia, una tragedia greca a Siracusa, e forse usciranno delle partecipazioni in qualche fiction. Si naviga un po’ a vista, come sempre.
L’intervista e finita. E stato un magnifico pomeriggio. Emanuele Salce e uno dei pochi artisti che sanno essere se stessi, sul palcoscenico e fuori. All’inizio ho descritto questa intervista come una piece. Lo e stata. Abbiamo riso, abbiamo affrontato temi piu seri. Emanuele ha sfoggiato la sua fresca attorialita, la sua innata ironia molto salciana, caustica e gentile al contempo.