«Questi nostri attori, come già vi ho detto, erano tutti degli spiriti e si sono dissolti in aria sottile… Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno»
Una tenebra crepuscolare: lentamente, le luci lampeggiano su un telo blu che occupa completamente il boccascena; sul palco, vuoto con una nebbia che travalica i confini della quarta parete per invadere la platea, si agita una figura proiettata in trasparenza, inconsistente e spettrale. È la danza sfrenata e ritualistica del corpo di Ariel che scatena la tempesta contro la nave dei “nemici” di Prospero; in sottofondo, rimbombo di voci lontane, il fragore martellante dei tuoni.
Nella Tempesta di Alessandro Serra, dall’inizio e per tutto lo spettacolo, il lavoro di sottrazione elimina quasi completamente il materiale scenografico, immergendo da subito lo spettatore in una dimensione teatrale: solo giochi di luce a evocare i luoghi; gli oggetti sono pochi, usati con parsimonia, una tavola in legno, due fioretti. In questo deserto, i personaggi prendono vita: ora da soli, ora in gruppo, ora attraversando la scena fugacemente, anche in curiose processioni (gli spiriti che danzano in cerchio con maschere ispirate all’Arcimboldo), danno vita a tableau vivant di tinta caravaggesca. L’identità dei personaggi, le dinamiche drammatiche più lineari, le relazioni tra i ruoli e lo sviluppo narrativo si mantengono, al solito affidate alle cornici perfette delle scene (cinque), quei quadri entro cui il regista ordina il testo, preservandone l’importanza strutturale. La connotazione resta visiva e la parola non è pura materia, ma ancora dialogo; eppure, parola poetica che non viene rielaborata in un linguaggio, ma si fa rigida cantilena, oppure diventa sgraziata, rauca, si fa grido, eco, gesto mimico.
Un classico che torna sul palco e subito la tentazione di interrogare la sua contemporaneità, di fare storia, comparare. Serra, però, traduce senza rivendicare un’interpretazione, né un rapporto con l’autorialità che esalta una poetica. Cita ciò che appartiene alla sua memoria, richiama, tradisce: un meccanismo teatrale infallibile per ritmo, suggestioni visive, ricerca sulla recitazione, alimentato da decine di «artisti» differenti (come li ha definiti lo stesso Serra): Grotowski e Kantor soprattutto. Si sono notoriamente susseguite varie rese di questo dramma; Strehler, per La Tempesta del 1977-78 che qui di certo ritorna, la definì «tutta teatro», riferendosi alla grande riflessione meta-teatrale che il testo cela; letta come metafora della contrapposizione tra Natura e Civiltà, o critica alla colonizzazione (in particolare del Mondo Nuovo) o, sembra anche questo il caso, come parabola sul perdono.
Quelle di Serra, però, sono visioni; certamente divenuta poetica, ma nata della scena: non solo estro, ma ricerca al servizio dell’esattezza, scritture immediate che semplicemente accadono, senza spiegare, né raccontare. Fedeltà al dramma che non cerca altro se non la ri-creazione della sua forza rituale; un momento di comunicazione totale, non logica, simboli che sopravvivono sotto forma di materia: di polvere, di legna, ferro, di fuocherelli di luci. Attenzione alla materia lieve, ma potenza di piedi che battono la terra. Misura e viscere.
La tensione tra gerarchie, dunque, non è solo nucleo tematico dello spettacolo, ma si conferma direttrice dell’intera operazione registica: potere/schiavitù, luce/buio, disordine/regole, comico/tragico, vita/morte. Capisaldi dell’intera opera shakespereana ed elementi che confermano Serra come regista dell’oscurità. La sua firma è la sbavatura nella perfezione, sia visiva che recitativa: il doppio registro alto/basso, la caratterizzazione dei tipi (Stefano, Trìnculo), le maschere degli spiriti, Ariel su tutti, possono apparire elementi che penalizzano l’innovazione, tecnica di mestiere. Però, a ogni stonatura e a ogni pausa (di tono, d’immagine, di sonorità, di corpi), il tremore emotivo che essi evocano, di concerto con le musiche e gli stimoli atmosferici, li rende porte per l’invisibile: i falò elettrici, il respiro che addormenta, la follia, legni intrecciati a forma di fiamma, che incombono su Calibano come legno da portare al padrone, eppure così leggeri da sollevarlo verso il cielo.
Gli attori stessi sono corpi adattati al suono delle parole, divisi tra un mondo umano, apparentemente potente, e il mondo altro della magia, dominato. Anche con questo spettacolo, il regista si prende cura dei simboli. Così, emerge un nodo conflittuale, il più denso di contraddizione, il più carico di memorie: La Tempesta come riflessione sulla libertà. Libertà di travestirsi nel mondo, libertà di essere autentici in teatro.
La figura di Calibano (Jared McNeill), figura delle viscere, sta al centro non solo del più interessante lavoro sulla forma, ma anche sul senso. «Così svegliandomi piangerò, per poter sognare ancora», urla Calibano quando racconta dei poteri dell’isola ai compagni di congiura: un’isola che sente sua, eredità della madre-strega e usurpata da Prospero, di cui percepisce le forze primordiali. Calibano natìo da educare, straniero-diavolo, Calibano che viene chiamato «persona»: la maschera, con tutta la forza soprannaturale che essa evoca. Calibano che danza pesante, ma così caldo nei suoi ritmi antichi: ritmi che sanno di pianto.
Così come Ariel danza leggera ai piedi del suo padrone per sentirsi protetta, Calibano strepita per riavere ciò che lo fa sentire a casa: Ariel chiede a Prospero: «ma tu mi vuoi bene padrone?»; Shakespeare fa pregare «grace» a Calibano pentito, nell’ultima scena; perdono, ma, forse, anche desiderio di bellezza che lo fa elevare, lo fa sognare. Schiavitù che nasconde bisogno d’amore? Amore umano, armonia della natura. Come di prassi affidata al finale, questa domanda fa acquistare significato all’Epilogo, in cui la regia inverte le parti: non più Prospero a invocare «let your indulgence set me free», ma Ariel che, liberato, cerca il suo re, improvvisamente solo, senza scopo, sul suo palco-isola che pian piano lo dissolve nell’aria.
Il monologo finale di Prospero, così solenne nell’indovinello affidato da Shakespeare alla «preghiera che assalta la misericordia», non solo linguistico ma di senso, sembra scivolare via, come canonica invocazione al pubblico. Invece, la solitudine di Ariel incarna ciò che più è universale, in questa Tempesta romana: il bisogno di appartenere, il bisogno di amare. Ognuno simile al proprio padrone, anche Prospero che ha rinunciato al magico controllo delle forze del caos, ricerca ciò che forse non è di questo mondo, ma guarda al cielo: un altrove misterioso che, in un cerchio di luce, riconcilia dolore e purezza.
La tempesta
di William Shakespeare
traduzione e adattamento Alessandro Serra
regia, scene, luci, suoni, costumi Alessandro Serra
con (in o. a.) Fabio Barone, Andrea Castellano, Vincenzo Del Prete
Massimiliano Donato, Paolo Madonna, Jared McNeill, Chiara Michelini
Maria Irene Minelli, Valerio Pietrovita, Massimiliano Poli, Marco Sgrosso, Bruno Stori
collaborazione alle luci Stefano Bardelli
collaborazione ai suoni Alessandro Saviozzi
collaborazione ai costumi Francesca Novati
maschere Tiziano Fario
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale | Teatro di Roma – Teatro Nazionale
ERT/Teatro Nazionale | Sardegna Teatro
Festival D’Avignon | MA scène nationale – Pays De Montbéliard
in collaborazione con Fondazione I Teatri Reggio Emilia
Bellissimo spettacolo. Un’ora e quarantacinque minuti che volano.