We got to dance. We got to dance.
Every morning.
And every night.
We got to smile.
Who doesn’t smile, is punished.
Who protest, is punished.
And every day.
Goes by the same.
[Happy Hour, Chapter 15]
Sulle note di questa canzone si apre Happy Hour, opera del drammaturgo italiano Cristian Ceresoli (autore dello spettacolo La Merda, che abbiamo recensito qui), andata in scena lo scorso 20 e 21 maggio al Teatro Basilica di Roma, per la regia di Simon Boberg e con una coproduzione internazionale a cui hanno partecipato Italia, Regno Unito e Danimarca.
La canzone, composta dalla dj islandese Blue Cat, compare spesso durante lo spettacolo, costituendo un tassello fondamentale per la comprensione dell’opera. È un mantra che, nel suo andamento circolare, si fonde gradualmente con le battute dei protagonisti. Capiamo così che Happy Hour non è l’ora della birra a metà prezzo, ma è letteralmente l’ora della felicità: l’ora durante la quale i prigionieri possono mostrarsi al pubblico e sperare nella redenzione.
Al centro del palcoscenico c’è una passerella rialzata a forma di ciambella quadrata, sorretta da tubi Innocenti. Nel foro centrale, un uomo e una donna in canottiera e mutande stanno ballando.
Quando la musica scema, i due salgono sulla piattaforma e iniziano a parlare. Scopriamo che si tratta di Kerfuffle (termine di origine gaelica che vuol dire disordine o confusione), un bambino di sette anni che gioca a calcio e sogna di diventare bomber, e la sua sorellina Ado (altro termine inglese, vuol dire chiassoso, agitato), una bambina che ama la danza e sogna il mondo dello spettacolo.
I due bambini descrivono una loro giornata tipo, all’interno del palazzo popolare nel quale abitano con la mamma, il papà e il nonno, tra i dissapori con il padrone di casa, che non vuole farli giocare nel suo orto e viene spesso a bussare alla porta per chiedere la pigione, e gli altri problemi più o meno grandi: «le bollette arretrate, lo sciacquone che non funziona…».
Il tempo scorre tra partite di calcio e allenamenti di danza, finché un giorno, dalla finestra di casa, vedono portare via il padrone di casa, incatenato insieme alla moglie.
Subito dopo la vita di Fuffi e Ado cambia radicalmente quando vanno ad abitare con i loro genitori in una grande casa nuova («ma anche usata», come precisa Ado). Tutto d’un tratto le cose sembrano andare per il meglio: il padre ha avuto un aumento, la mamma finalmente sorride, nessuno viene più a chiedere l’affitto, le bollette sono state pagate e lo sciacquone funziona.
Il racconto salta spesso dal tempo presente al futuro, intrecciando i fili narrativi. Ora i due bambini si ritrovano in un campo di concentramento dove vengono rasati completamente, obbligati a indossare una tuta a strisce rosa e nere, e soprattutto a «ballare tutte le mattine, e ogni notte. E devono sorridere. Chi non sorride, viene punito. Chi protesta, è punito. E ogni giorno, si ripete allo stesso modo».
La madre di Ado e Fuffi vuole la pelliccia e lo smalto argentato, e compra una lampada abbronzante perché l’abbronzatura è fondamentale. Il padre beve ed è un po’ burbero; compra una macchina usata («ma anche nuova») che non può permettersi, e confida nel successo dei suoi figli.
Quando però Ado viene rifiutata a un provino importante, tutto precipita, e la vittima della follia, che nasce dal suo fallimento, è Fuffi. Ado prende «le forbici per trinciare il pollo. E colpisce. Colpisce il divano, il computer. Fuffi sogna la sua grande partita, sta per segnare, e grida Goal.» E ancora, «Ado prende le forbici, quelle per trinciare il pollo. E colpisce. Prima il divano, poi il computer… Fuffi sogna la sua grande partita, sta per segnare e grida goal». Le parole dei due bambini si ripetono sempre uguali, come filastrocche, formule magiche per tenere a distanza l’orrore.
I due performer Silvia Gallerano e Stefano Cenci, nei panni rispettivamente di Ado e di Kerfuffle, sono la vera chiave di volta dello spettacolo, riuscendo a dare vita a un mondo folle in cui intrecciano diversi registri dell’animo umano, sia emotivi che razionali, alternando battute drammatiche ad altre comiche e incredibilmente giocose. Nello spazio della scena si muovono agilmente, saltano su e giù dalla passerella, vi si aggrappano, si rifugiano nel buco centrale, evocando davanti agli spettatori le loro fantasie di bambini.
La pièce di Ceresoli parla di un futuro distopico in cui regna un totalitarismo dell’allegria: un non-tempo e un non-luogo in cui l’umanità è costretta a sorridere, a divertirsi, per non essere punita. I sogni e i desideri sono omologati, imposti dall’alto. I trasgressori vengono deportati e rinchiusi in acquari svuotati, dove vengono derisi, insultati, compatiti da spettatori che li osservano dall’altra parte del vetro. L’unica salvezza è l’happy hour, un’ora che si ripete una volta ogni settimana, durante la quale i prigionieri possono mettersi in mostra, sorridere e sperare per il meglio.
Attraverso questo scenario, che ricorda una puntata di Ai confini della realtà o di Black Mirror, l’autore sembra voler muovere una critica verso questo nuovo mondo, quello della superficialità della società (anche se la scrittura sente il peso dei suoi anni: oggi Ado sarebbe stata una influencer, e Fuffi uno youtuber), che esalta l’effimero, gli uomini senza qualità e il successo facile. Un’era del consenso, popolata da “influencer” e “creator” di vario genere, che si vende molto spesso come autentica, sincera, reale, ma in cui, il più delle volte, le emozioni, i sentimenti, gli spezzoni di vita che vengono condivisi, seguono sceneggiature precise, dove si finge di essere sempre felici e sempre perfetti.
HAPPY HOUR
DIRECTED BY SIMON BOBERG
SOUNDTRACKS BY STEFANO PIRO, ‘CARACAL’ A SONG BY DJ BLUE CAT
TECHNICIAN GIORGIO GAGLIANO
PRODUZIONI FUORIVIA (ITALY), FRIDA KAHLO PRODUCTIONS (ITALY) AND RICHARD JORDAN PRODUCTIONS (UK)
WITH TEATRO METASTASIO (ITALY) AND TEATER GROB (DENMARK) IN ASSOCIATION WITH PLEASANCE (UK) AND DEVELOPED WITH JERSEY ARTS CENTRE (UK), WITH THE SUPPORT OF SPIN TIME LABS (ITALY)