Mazzi & Gargiulo

“Il Mulino di Amleto” e il loro Dostoevskij: intervista a Barbara Mazzi e Francesco Gargiulo

Durante i giorni palermitani di Presente Futuro 2022 (li abbiamo raccontati qui) in una piccola sala in un vecchio vicolo dello storico quartiere Kalsa, uno spazio non propriamente “teatrale” – anche se questa espressione, per fortuna, non ha più senso – è andato in scena Underground, un progetto fuori concorso, coprodotto da Teatro Libero e A.M.A. Factory. Dittico Dostoevskij, recita il sottotitolo: la performance, ideata dalla compagnia Il Mulino di Amleto, è ispirata al gigante della letteratura russa e mondiale, di recente anche oggetto di dibattiti oscillanti tra l’assurdo e l’incredibilmente reale, risoltisi per fortuna in un tonfo sordo. Un esperimento interessante, guidato da Barbara Mazzi e Francesco Gargiulo, una messinscena in cui il pubblico viene reso responsabile, chiamato alla scelta, costretto a essere attore e non solo fruitore. L’espediente è quello di un gioco “etico” da tavolo il cui cartellone mostra il trolley problem, il dilemma filosofico pensato da Philippa Foot: sei conducente di un treno impazzito il cui binario si biforca, da un lato uccideresti cinque persone e dall’altro una.
Cosa scegli? Chi uccideresti?
Il pubblico è chiamato a scegliere, in manche via via sempre più complesse. Un ragionamento tra politica, morale, sociologia, letteratura, teatro, un incrocio di linguaggi che non si ingarbugliano ma mirano e riescono a mantenere una immediatezza, una semplicità necessaria per affrontare interrogatovi complessi: «Libertà o felicità?». Dopo aver partecipato allo spettacolo – e pure attivamente come diretta concorrente del gioco – abbiamo intervistato Mazzi e Gargiulo.

Il pubblico è veramente protagonista, è la comunità che parla quella sera.

Perché vi chiamate Il mulino di Amleto?

Barbara Mazzi: La compagnia si fonda nel 2009 a Torino da un gruppo di ex allievi diplomati nel 2006 dalla scuola del Teatro Stabile di Torino. L’esperienza per noi più significativa l’incontro con Bruce Myers.

All’inizio non c’era tra noi una figura registica, pian piano invece Marco Lorenzi ha cominciato a firmare le regie. Si chiama così perché il nostro primo spazio di prove è stato un vecchio mulino industriale, lì il proprietario ci ha ospitato finché ha potuto. Dentro questo mulino c’era una libreria in cui trovammo questo titolo (Il mulino di Amleto di Giorgio de Santillana e Herta Von Dechend). Da lì viene il nome della compagnia, in qualche modo glielo dovevamo.

Come nasce invece Underground?

Francesco Gargiulo: Il progetto nasce durante prima pandemia all’interno di un altro progetto, Fahrenheit. Avevamo voglia di allenarci, di tenere duro, di continuare a raccontare. Vedevamo l’attenzione abbassarsi, allora Barbara e Marco hanno proposto questo progetto. Hanno chiesto a sei attori di scegliere un libro da salvare dal rogo. È partito tutto da lì. Ci davamo dei piccoli compiti da svolgere in casa, poi abbiamo fatto i primi incontri un po’ clandestini, fino a che non ci siamo potuti ritrovare in sala prove. Io avevo scelto Delitto e castigo e Barbara Il grande inquisitore. Abbiamo cominciato creando studi di 5 minuti, poi di 10 minuti, e giunti poi fino a qui.

In cosa consiste il progetto Fahrenheit?

BM: Il progetto Fahrenheit viene sviluppato su diversi territori e prescinde dallo spettacolo, si producono “atti per formativi”. Al momento lo stiamo sviluppando a Novara: all’interno di un gruppo di attori del territorio, noi “formiamo” due referenti che guidano il progetto e di tanto in tanto andiamo a vedere la strada che hanno percorso. È un progetto fondato sul rapporto con il pubblico, le prove sono in parte aperte, e il pubblico partecipa portando il proprio libro da salvare. Il pubblico difende il proprio libro leggendo, gli attori attraverso questi atti per formativi, sperimentandosi anche in linguaggi mai affrontati – io per esempio non avevo mai fatto DJ set prima di questo progetto. Il senso del progetto ha sempre previsto di mostrare al pubblico parti di lavoro ancora vulnerabili, non protette e raccogliere pareri dagli spettatori. Questo progetto è collaterale al Mulino di Amleto, non è infatti firmato dal nostro regista. Questo perché nella nostra compagnia esistono delle costole, ed è una cosa che ci arricchisce.

In Underground il pubblico gioca il ruolo di attore condotto da voi. In che modo questo condiziona il lavoro? È un condizionamento vero?

FG: Possiamo rispondere adesso dopo averlo replicato alcune volte. Nella fase di preparazione abbiamo inventato il gioco ma non potevamo sapere cosa sarebbe successo con il pubblico. Abbiamo allora immaginato il maggior numero di direzioni, il maggior numero di risposte da parte del pubblico per provare a capire come poter sviluppare lo spettacolo. Il pubblico ha veramente un ruolo importante, non tanto nella struttura, ma moltissimo nell’atmosfera, nella percezione. Certe sere si è rimasti su un clima giocoso, in altre si è scesi in toni molto seri. Il pubblico è veramente protagonista, è la comunità che parla quella sera.

BM: Di alcune cose che il pubblico fa noi siamo seriamente spiazzati. È un allenamento, nel momento in cui accade una scelta imprevista, dobbiamo capire subito, nell’immediato, come usare o non usare quella cosa.

FG: Vince il fatto che succedono delle cose, in alcuni casi previste, in altri casi eclatanti.

BM: È chiaro che ci sono degli snodi drammaturgici, ma la versione presentata qui a Palermo è ridotta e alcuni di questi snodi, per ragioni di durata, sono stati sottratti e dunque i passaggi sono ancor più marcati, forse anche forzati, ma va bene, è una sfida anche quella.

ph Giovanni Laino - Barbara Mazzi in underground
ph Giovanni Laino – Barbara Mazzi in underground

Questo spettacolo è presentato come uno spettacolo ispirato a Fëdor Dostoevskij. Per voi chi è Dostoevskij?

BM: Ho riletto I fratelli Karamazov nel primo lockdown, era un periodo nero, come per tutti. Poi io ho un carattere ombroso. Mi ha fatto stare bene. E quello star bene volevo regalarlo.

Quindi è la tua emozione rispetto a Dostoevskij più che l’autore in sé da restituire?

BM: Sì, in questo caso è un pretesto. Pur se, allo stesso tempo, sono convinta che qualcosa del vero Dostoevskij ci sia, per tutto quello che abbiamo letto, grazie agli studiosi con cui ci siamo confrontati, soprattutto. Sono venuti alle prove anche alcuni russi addetti ai lavori in qualche modo, e ho chiesto loro se avessero trovato Dostoevskij. Loro lo hanno percepito come un omaggio.

FG: Anche per me si tratta di raccontare la mia esperienza con Dostoevskij, cosa ha mosso in me. Io invece sono poco ombroso di natura, ma certo ho una parte d’ombra.

Dostoevskij è ombra?

FG: No, è luce e ombra. Racconta un ombra, ma risale.

BM: Per questo a me ha fatto stare bene. Questo volevo restituire: il dolore può condurre alla risalita. Ricordo quando uscì l’articolo su Robinson, il supplemento settimanale del quotidiano «la Repubblica» intitolato “Terapia Dostoevskij” ho pensato: ecco vedi!

FG: Io sono buddhista, pratico molto, e pur essendo Dostoevskij un cristiano ortodosso quando lui parla di rivedere la luce, lo sento molto nel mio percorso di vita religiosa. Anche nell’accettare la non dualità della realtà.

Tu dici “non dualità”, eppure lo spettacolo è tutto a due: due attori, due atti, due binari, due parole da scegliere – libertà o felicità; quando poi restituite i dati delle interviste che avete raccolto in giro per le città, subentra una componente in qualche modo statistica che di per sé è abbastanza duale.

FG: È provocatorio. Dare rigidamente i binari A e B per poi smontarli: la vita non è duale. E la vita vince. Le persone si portano a casa una difficoltà nello scegliere. Mentre giocano stanno dentro allo schema, alla dualità ma le domande che si portano a casa sono tutte di apertura.

BM: Quando chiediamo “felicità o libertà?”, è un gioco perché in realtà è impossibile la scelta. E anche se la vita non è duale, la dualità fa parte della vita. E subentra per me una terza cosa: il dolore.

Il dolore dello scegliere?

BM: Il dolore dello scegliere e pure il dolore della scelta che hai fatto, anche quado non scegli. Con questo dolore ci devi stare. E ci accomuna tutti questa condizione. Non siamo soli.

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