Operatrice culturale, Valentina Marini ha iniziato la sua carriera alla fine degli anni Novanta a Verona. Oggi, insieme al coreografo Mauro Astolfi, dirige la compagnia Spellbound Contemporary Ballet, è fondatrice del progetto European Dance Alliance, agenzia di servizi per lo spettacolo, è uno dei tre co-direttori del Teatro Biblioteca Quarticciolo, è presidente dell’AIDAP (Associazione Italiana Danza Attività di Produzione) nell’ambito di Federazione AGIS e molto altro. Negli ultimi anni ha contribuito alla creazione del Festival internazionale di danza Fuori programma, di cui è direttrice artistica. Professionista esperta sia nell’ambito della produzione che in quello della programmazione, ci ha parlato della qualità delle relazioni, sia umane che geografiche, che occorre intessere per lavorare in maniera efficace.
Nell’intervista dello scorso anno hai parlato di quanto la pandemia abbia avuto pesanti conseguenze sullo spettacolo dal vivo e di come queste abbiano generato nuove riflessioni dietro alla programmazione di Fuori Programma. A oggi cosa si porta dietro il Festival?
Sicuramente tutto quello che ho detto rimane vero, anche perché gli effetti scaturiti dalla pandemia sono di lunga gettata. Tutto sommato, ne sono derivate delle riflessioni sulla modalità di fruizione del pubblico e sui formati che mi hanno stimolato a proseguire nella direzione della relazione con il paesaggio, qualcosa che prima non avevo immaginato di tenere come filo conduttore del Festival.
La dimensione esterna, che all’inizio era una necessità perché non si poteva stare nei teatri, ha dato la possibilità di disegnare delle traiettorie del Festival e di riscrivere gli spettacoli e i formati in base a dei contesti meno abituati a ospitare spettacoli dal vivo.
Avendo scelto dei luoghi outdoor, che hanno un forte valore nella programmazione del Festival, secondo te è lo spettacolo dal vivo che invade gli spazi urbani o, al contrario, sono gli spazi che entrano all’interno dello spettacolo?
In realtà mi piacerebbe pensare che ci possa essere un equilibrio e che le due relazioni siano bilanciate. Sicuramente è chiaro che lo spettacolo deve rimanere il centro di attrazione principale, però è bello rileggere questi luoghi attraverso gli occhi del pubblico che li riscatta e li rivede in altra luce. Le azioni performative vengono valorizzate da una messinscena in spazi particolari e gli spazi stessi acquisiscono un valore diverso e vengono vissuti e attraversati nel senso letterale. Abbiamo, ad esempio, le passeggiate che conducono il pubblico dalla biglietteria all’interno del Teatro Biblioteca Quarticciolo fino al Parco Tor Tre Teste, dove poi hanno luogo gli spettacoli.
Questo si ricollega anche al sottotitolo del Festival di quest’anno: Comunità in transito?
Sì, esattamente, perché ci si augura sempre che le diverse comunità, che sono quelle del pubblico, degli artisti e dei molteplici protagonisti del Festival, possano attraversare non soltanto gli spazi, ma anche Roma e, in qualche modo, fidelizzarsi al calendario del programma, non limitandosi ad una visione strettamente legata al proprio quadrante di appartenenza.
Il grande tema per chi si occupa di spettacolo dal vivo è sempre il pubblico, queste migrazioni spontanee sono un po’ il tema con cui le comunità si intrecciano all’interno della programmazione. C’è una miscellanea nel programma che unisce componenti artistiche di diversa fonte. Ad esempio, il progetto di Enzo Cosimi in apertura di programmazione, rivolto a cittadini e cittadine che hanno la possibilità di interagire con la comunità dei professionisti. O ancora, il progetto creato per l’occasione di Compagnia Bellanda con Giovanni Insaudo al Parco Alessandrino; o anche il progetto in collaborazione con il Teatro di Roma If there is no sun di Luca Brinchi, Irene Russolillo e Karima 2G, che, presente nella prima sezione di apertura nell’arena del Teatro India, riguarda le comunità in dialogo, essendo frutto di un progetto di ricerca tra comunità della Tunisia, del Senegal e artisti italiani.
Comunità in transito è un’espressione che esonda dal concetto tradizionale di comunità, solitamente intesa come qualcosa di fisso e dai confini delineati. Hai citato prima l’esempio di Enzo Cosimi, ma all’interno del programma ci sono diversi appuntamenti che ricercano una dimensione partecipativa.
Si, diciamo che è un ambito molto delicato da trattare, perché c’è il rischio di cadere nella retorica. Si è anche molto abusato di spettacoli dove la partecipazione del pubblico diventa quasi una forzatura, o dove il pubblico stesso viene a volte quasi violentato nel dover essere per forza parte di qualcosa quando, semplicemente, ne voleva essere spettatore. Ci sono, invece, delle forme di partecipazione che possono essere di arricchimento. Dai talk ai laboratori che abbiamo per l’appunto immaginato sia in una dimensione più specificatamente professionale, a cura di artisti e artiste che si occupano di composizione coreografia, come quelli che avranno luogo al Teatro India; sia classi a partecipazione spontanea, in forma urbana, che sono quelli curati da Anna Basti nell’area del Quarticciolo. Quest’ultimo è il programma Le Classic c’est chic! pensato per un pubblico decisamente amatoriale che viene messo in contatto con una lezione di danza classica – idealmente quanto di più specifico e tecnico si possa immaginare. Sono tutte pratiche che arricchiscono il Festival rendendolo non soltanto fruibile, percepito come esibizione decorativa, ma stimolando una partecipazione che si può definire intellettiva, di discussione critica, fondamentale per non creare la distanza tra l’oggetto artistico e il pubblico.
Si parla sempre più spesso di welfare culturale, soprattutto dopo la pandemia, collegando le arti alla salute intesa in senso ampio. Oltre al doing, in che termini la partecipazione a un festival è generatrice di benessere dell’individuo e della collettività?
Sicuramente per il fatto che ricostruisce una socialità, soprattutto tra coloro che non sempre riescono ad averla. Penso al pubblico meno avvezzo: un’area meno frequentata come quella del Quarticciolo, rivestita da una luce diversa, crea un riscatto che inevitabilmente coinvolge anche le persone.
Nascono circostanze grazie alle quali attraverso la partecipazione a un atto performativo ci si ritrova in una comunità con persone che hanno lo stesso obbiettivo e che in quel momento guardano con lo stesso sguardo un progetto artistico. Si determina una forma di benessere intellettivo oltre che fisico. Anche l’idea di programmare all’orario del tramonto ha una serie di valori accessori, non da ultimo quello di non porre una conclusione alla giornata, ma di permettere al pubblico di avere un passaggio successivo. Si crea l’antefatto che genera un altro tipo di condivisione, quindi sì, è una forma di socializzazione sana.
Nel comunicato stampa e nella presentazione de programma si parla di: «spazio esploso in un tempo disteso che lascia tempo alla riflessione». Qual è secondo te il tempo della riflessione oggi? Dove si trova? E come le arti e la danza in particolare sono stimolatore di pensiero?
Purtroppo si trova sempre meno tempo e tutti soffriamo di questa mancanza.
Nella programmazione l’idea che la successione e la partecipazione a più eventi concatenati possa diventare un’abitudine fa si che si crei una catena di fatti, per cui quel tempo collegato diventa una linea orizzontale nell’agenda delle persone. In questi casi di partecipazione continuativa difficilmente il soggetto partecipa da solo, lo fa in compagnia di qualcun altro e questo crea in un tempo dilatato delle sacche di discussione.
A me preme molto l’idea che lo spettacolo possa essere anche fonte di conversazione, non dal punto di vista tecnico specifico, ma che possa suscitare riflessioni di qualsiasi tipo.
Non ho mai immaginato una programmazione che avesse una tematica unica, o che dovesse per forza rispondere a un certo tipo di criteri. Quando riesco, mi piace molto immaginare che ci possano essere in programma dei progetti che abbiano al loro interno delle tematiche di natura politica, sociale, che possano essere fonte di discussioni. Tornando alla prima domanda – se è difficile oggi immaginare di stimolare un pubblico –, forse l’unica chiave che abbiamo è quella di rendere la partecipazione a un fatto artistico una cosa necessaria perché ci scuote, in qualche modo, e perché risponde a un’esigenza che ci tocca in prima persona.
In teoria, non è una capacità di tutti e non è un obbligo, diciamo che la scena contemporanea dovrebbe avere come responsabilità quella di riuscire a parlare di tematiche che altri tipi di linguaggi artistici non risaltano. Laddove si lavora in territori magari meno tradizionali e in ambienti meno convenzionali si cerca qualcosa che porti in sé un messaggio diverso, si percepisce anche che il pubblico ne trae un’eredità diversa.
Quali sfide si affacciano per la danza nel prossimo futuro?
Ce ne sono tante, ma una è sicuramente quella di abbattere lo steccato di essere un genere predeterminato e predefinito. La sfida maggiore è far sì che quando si dice la parola “danza” non si crei un ecosistema chiuso con dei pregiudizi rispetto a una forma espressiva. La danza ci ha dato prova che può racchiudere molteplici altre modalità di comunicazione artistica.
Il festival internazionale di danza Fuori Programma vi aspetta fino all’8 luglio nei suoi spazi, tra il quartiere Quarticciolo (Piazza del Quarticciolo e Teatro Biblioteca Quarticciolo), il Parco Tor Tre Teste Alessandrino e il Teatro India. Qui il programma completo.