La questione dell’identità è quantomai bruciante, quantomai politica. Lo è a tal punto che pare più opportuno parlare di identità al plurale, a indicare le numerose possibilità dell’essere dell’uomo. Le identità hanno a che vedere con il pensiero, con il modo di essere nel mondo, con la più profonda essenza della persona; ma sono anche legate inscindibilmente al corpo, all’appropriazione di sé anche in quanto corpo – l’abolizione del diritto all’aborto negli Stati Uniti ci costringe a tenerlo bene a mente. Con facilità il discorso pubblico a tutti i livelli, da quello delle arene televisive ai comizi, riconduce il dibattito sull’identità a un fatto LGBTQI+, quando invece sulla terra non c’è essere umano che possa dire di non essersi mai interrogato sulla propria identità, di non essersi mai chiesto chi sono?, chi voglio essere?, come mi vedono gli altri?
Liv Ferracchiati, autore premiato e riconosciuto grazie e nonostante il suo essere nato nel 1985 – nel nostro Paese il premio è concepito spesso come riconoscimento in vecchiaia più che come un incoraggiamento in gioventù –, è uno che queste domande “identitarie” se le pone continuamente. «Non mi è mai importato niente delle trame», scrive tra le prime pagine del suo romanzo Sarà solo la fine del mondo. E in effetti questa cosa potrebbe valere anche per Uno spettacolo di fantascienza, quante ne sanno i trichechi che abbiamo visto in occasione del festival Narni Città Teatro.
Ferracchiati immagina di essere su una nave rompighiaccio e nel lungo viaggio fino a Polo Sud trascorre il tempo con la sua fidanzata (Petra Valentini) e un signore non meglio precisato (Andrea Cosentino), ragionando di cose diversissime che lo riportano sempre a interrogarsi sulla rappresentazione dell’identità. Tutti noi per esistere ci appoggiamo a delle “convenzioni” perché gli altri ci riconoscano come x o come y, perché comprendano ciò che vogliamo dire: la lingua stessa a ben pensarci è una convenzione, per non dire del teatro. Così anche il genere (maschile o femminile) è una convenzione. Le convenzioni servono, ma perché considerarle fisse? Se per darci appuntamento – dice Ferracchiati – dicessimo “andiamo a prendere un succo di pera? Anziché un caffè” resterebbe sempre tale l’essenza dell’incontro.
La messinscena procede per virate, per salti, parte da una rappresentazione convenzionale in cui gli attori fanno gli attori, il testo fa il testo, la neve finta piove dalla graticcia, e continua infrangendo gli schemi, le categorie, confondendo i piani del reale e del rappresentato. La drammaturgia si regge su un filo, un continuo entra-esci, diciamo così, metateatrale. Quel che fa Ferracchiati, con grande ironia e raffinata consapevolezza, è difficile da definire – ecco ancora il fantasma delle categorie: parla di una cosa parlando apparentemente di un’altra, parla di identità parlando di teatro.
In questo contesto i compagni di scena sono perfetti (e di per sé bravi): Petra Valentini un’attrice di formazione “accademica”, che si spoglia delle sovrastrutture e Andrea Cosentino, qui insolitamente attore in uno spettacolo non suo. Rompere la convenzione è per Cosentino il divertimento preferito ed è interessante vedere come due drammaturghi e interpreti dall’identità – qui sì – forte si incastrino in un gioco comune, valorizzino ciascuno la diversità dell’altro.
Una menzione speciale, pur se non approfondita, va al tricheco peluche, che dimostra di saper capire e dire la complessità degli uomini, meglio degli uomini stessi.
UNO SPETTACOLO DI FANTASCIENZA Quante ne sanno i trichechi
testo e regia Liv Ferracchiati
con (in ordine alfabetico) Andrea Cosentino, Liv Ferracchiati e Petra Valentini
aiuto regia Anna Zanetti
dramaturg di scena Giulio Sonno
scene e costumi Lucia Menegazzo
luci Lucio Diana
suono Giacomo Agnifili
lettore collaboratore Emilia Soldati