Per «costruire un mondo altro e diverso, anche se solo in teatro», come scrive Roberta Ferraresi introducendo il workshop di critica teatrale organizzato dalla Biennale Teatro 2022, serve che la comunità, gli artisti, gli operatori, gli spettatori si incontrino non solo nel tempo dello spettacolo. È importante che il confronto travalichi la soglia del palcoscenico, per ritrovarsi a discutere di idee, di visioni, di utopie. Questo interrogarsi su quale sia il teatro che viviamo e quello che intendiamo costruire, è l’impulso da cui ha preso il via la tavola rotonda Essere, non essere, o essere altrove, moderata da Andrea Porcheddu nella Sala delle Colonne a Ca’ Giustinian, sede de La Biennale di Venezia. Per costruire una comunità occorre partire dal chiedersi chi siamo, perché facciamo teatro – Why theatre? Recita il titolo dell’ultimo libro di Milo Rau, pubblicato nel 2020 – e in che modo questo “mestiere” forma l’identità di chi lo pratica e di chi da spettatore lo condivide. La bruciante questione dell’identità, assolutamente politica prima ancora che artistica, è il nodo su cui gli artisti invitati si confrontano. Per Carlus Pedrissa, fondatore della compagnia La Fura dels Baus il teatro ha formato la loro identità nella misura in cui, all’indomani del regime franchista, ha insegnato loro l’idea di libertà e la capacità di immaginare il futuro: «il teatro è un’arma carica di futuro», dice con entusiasmo. Parla di futuro anche l’artista e marionettista Natacha Belova, cresciuta in Russia in un momento in cui la politica era (ed è, purtroppo, lo sappiamo bene) intenta a idealizzare la realtà per creare il mito della Nazione: «Il teatro è una promessa di futuro. La finzione del teatro – racconta – mi faceva immaginare un mondo diverso». Cosa significa diverso? Per Caden Manson significa un mondo in cui non c’è bianco né nero, il più possibile privo di “definizioni”: «Il binario non esiste. Le definizioni sono accordi. Definire è esercitare un potere». Certo la questione è spinosa e il nostro pensiero è talmente imbrigliato in categorie – noi critici, o aspiranti tali, come possiamo riuscire a sfuggire alle definizioni? – che lo sforzo di immaginare una realtà così “amorfa” ci spedisce dritti all’idea di caos. Eppure, il caos può essere considerato una condizione positiva, come sostiene Antonio Tagliarini: «La confusione è l’occasione per guardare se stessi, oltre che il mondo. È, forse, il modo per non rinchiudersi in definizioni». Per molti artisti della scena, il teatro è un luogo in cui esistere e resistere, «un luogo protetto in cui rifugiarsi» dice Daria Deflorian; allo stesso modo il teatro costringe a uscire dall’intimo della sala prove, per sfidare le proprie debolezze, le proprie contraddizioni. «È questa la sua missione politica» chiude Deflorian. Oltre a essere lo spazio in cui conoscere se stessi, il teatro è, dunque, il luogo in cui si incontra l’Altro. A questo proposito si inseriscono le parole di Tita Iacobelli: «Capisco la mia identità, perché io sono a partire dall’altro», l’altro che è la marionetta a cui dà vita, che è la compagna di scena, che è il pubblico. «Ognuno contiene tutto nel riflesso dell’altro», rincara Milo Rau. Non è detto quindi che si debba essere una cosa soltanto, anzi: ciascuno può esistere in innumerevoli sé, contraddittori, complessi. Il Leone d’Argento di questa Biennale, Samira Elagoz, vive il teatro come «luogo della moltitudine di sé»; artista transgender, ha costruito infatti l’intero suo percorso sulla ricerca dell’identità, in una sovrapposizione tra identità artistica e identità personale: «L’identità è “inventare” ciò che puoi essere», aggiunge.
Il teatro è dunque un’azione individuale e contemporaneamente collettiva, luogo di formazione dell’identità del singolo e della comunità. In sostanza è un atto politico. Per immaginare il futuro si può e si deve ragionare in ottica politica. Serve il coraggio dell’utopia. Il coraggio degli artisti, come dice Pedrissa, di essere uomini che volano. Il coraggio dei curatori, degli organizzatori, dei direttori artistici, aggiunge Elagoz. Il coraggio dei legislatori, aggiungerei. L’arte per l’arte è giusta ma può essere pericolosa se parla solo a se stessa. Pensare l’arte per la società, invece, «l’arte che si fa politica», afferma sul finire Milo Rau, per mettere in scena il futuro, nella speranza utopica, provocatoria e anarchica che lo spazio simbolico e democratico del teatro sia talmente parte della società da rendere inutile l’istituzione. Un’utopia bella grossa, per giusta conclusione.
ESSERE, NON ESSERE, O ESSERE ALTROVE
Tavola rotonda con Natacha Belova, Daria Deflorian, Samira Elagoz, Tita Iacobelli, Caden Manson, Carlus Padrissa, Milo Rau, Antonio Tagliarini.
Moderatore: Andrea Porcheddu