Abbiamo intervistato Andrea Cosentino, artista multiforme, un po’ clown, un po’ attore, un po’ autore, tutto guizzo e improvvisazione, ma con la finezza del mestiere saldo. Cosentino è difficile da incasellare in categorie o etichette; anche il suo teatro sfugge le definizioni, svirgola e disattende, puntando però sempre al suo destinatario irrinunciabile che è il pubblico. Da oggi 11 novembre sarà in scena per tutto il week end a Carrozzerie n.o.t. con il nuovo spettacolo rim*bambimenti. Un TED Talk senescente in salsa punk, prodotto da Cranpi. Abbiamo iniziato da questo suo ultimo lavoro per parlare infine dei processi drammaturgici che muovono le sue produzioni teatrali.
Di cosa tratta lo spettacolo e cosa vuol dire il sottotitolo Un TED Talk senescente in salsa punk?
Il modello dello spettacolo è un Ted Talk, cioè una conferenza. Tratta del Tempo secondo le leggi della fisica quantistica, leggi che mettono in discussione non soltanto il concetto di tempo inteso come progressione lineare passato-presente-futuro, ma che ne discutono l’esistenza stessa: è tutta una nostra illusione percettiva, ma in realtà il tempo non esiste, è un tutt’uno con lo spazio.
Questa conferenza è condotta da un fisico, che sarei io, malato di Alzheimer e di demenza senile. Una malattia per cui, per definizione, il passato, il presente e il futuro si cancellano e si confondono.
Quindi lo spettacolo è un tentativo, come spesso accade nei miei lavori, di accostare due argomenti disparati e metterli in relazione: porre in continuità e in contiguità il tempo del malato di Alzheimer, un tempo assolutamente appallottolato su se stesso, con le verità apparentemente incomprensibili al senso comune che ci rivela la fisica contemporanea. Il nostro tempo storico e biografico è solo un’illusione ottica, il tempo c’è da sempre e ci sarà per sempre, un po’ come lo spazio. Solo che nella nostra intuizione fisica sappiamo che lo spazio esiste, lo vediamo con i nostri occhi fino all’orizzonte. Invece non abbiamo un senso adeguato per “vedere” il tempo. Eppure questo c’è, c’è già tutto.
Perché hai scelto proprio questo tema?
La fisica mi affascina moltissimo. Ovviamente non ho gli strumenti per parlarne, ma non è importante perché a me serve soprattutto per parlare di vecchiaia e di morte. Nonostante il tono comico dei miei spettacoli credo di parlare quasi sempre della morte o del tempo che finisce. E contemporaneamente il personaggio malato di Alzheimer, che è il mio alter ego anziano, o il pupazzo con le mie fattezze, manipolato in stile bunraku, sono degli espedienti per giocare comicamente su dei paradossi apparentemente incomprensibili e renderli in qualche modo digeribili.
Ho sempre lavorato tentando di comunicare che non sono un narratore, non racconto storie. Quindi se da una parte il mio teatro potremmo definirlo comico-sperimentale, dall’altro è un dispositivo che mi serve per destrutturare ogni possibilità di racconto e di storia.
Per me la sfida di questo spettacolo, con l’aiuto della fisica quantistica e post-einsteiniana, è quella di dire che tutte le nostre strutture narrative – dalla narrazione semplice e lineare delle storie a quelle più complesse delle serie tv che usano flashback e flashforward in continuazione – sono in realtà degli espedienti che si appoggiano su un qualcosa che da un punto di vista della fisica avanzata è completamente inesistente. È chiaro che è un paradosso, visto che la linearità temporale ha un senso comune, però provo a far finta, in questo lavoro, che quello che la fisica ci racconta è reale. Quindi come faccio a salvare una possibilità di narrazione partendo dall’idea che non esiste passato, presente e futuro?È una sfida che mi piace affrontare, pur sapendo che non riuscirò a vincerla.
Perché?
Perché noi esseri umani cerchiamo ancora di raccontarci delle storie e dunque la narrazione è per noi un espediente consolatorio. La fisica è affascinante per le dimensioni micro e macro che ti permette di indagare: da un lato ci sono i «quanti» di cui non si può neanche dire se esistano o dove siano, dall’altro c’è l’universo che è una cosa altrettanto incomprensibile. Nel mezzo ci siamo noi che ci raccontiamo delle storie per darci una qualche importanza. Questi sono dei paradossi con cui mi piace e trovo interessante giocare.
Hai detto che sei un anti-narratore. Allora come costruisci i tuoi spettacoli e in che modo il rapporto con il pubblico entra nella drammaturgia delle immagini che crei?
Come dicevo, io non sono un narratore. Il narratore mediamente si fa delle immagini di quello che sta raccontando e le trasferisce al pubblico. In un certo senso, è il meccanismo dell’oralità: cogliere con parole potenzialmente sempre molto diverse uno stesso evento e restituirlo a contatto con il presente. Nel mio caso forse è un po’ diverso, nel senso che io non racconto storie. Quello che conta per me è la relazione con il pubblico le cui reazioni sono davvero parte integrante della mia drammaturgia, perché lavoro sul distruggere continuamente le immagini. Quindi ho bisogno sì di creare immagini nella mente del pubblico, ma solo per disfarle un attimo dopo. È come in una barzelletta, dove il narratore non ha la memoria del testo – nessuno si sognerebbe di dire «so una barzelletta perché la conosco a memoria». Il raccontatore di barzellette conosce una traccia e la sua abilità non sta tanto nel racconto che sta facendo, ma nel far visualizzare le immagini che racconta e nel distruggerle subito per crearne altre completamente diverse, o opposte, o che stridono. In questo sta la comicità. La comicità è inciampare, è distruggere le immagini che crei. Ciò che faccio continuamente è crearmi e creare aspettative nello spettatore e divertirmi a distruggerle in un attimo, o a deviarle e farle andare in altre direzioni. Infatti i miei testi, che non sono mai dei testi imparati a memoria, funzionano più per digressione che per concentrazione, quindi più per creazione di contrasti che per dipinto di affreschi.
Se non impari a memoria i testi, come fissi quindi le tracce dei tuoi spettacoli?
Scrivo più o meno dei testi, ma li scrivo sempre a posteriori, mano a mano che gli spettacoli cambiano. Uno spettacolo che ha replicato tante volte più o meno è sempre uguale a se stesso, perché è il risultato di una serie di incontri con gli spettatori. Man mano che le cose funzionano con il pubblico tendo a ripeterle. Così funziona. È un discorso da mestieranti, questo. Le cose che funzionano meno, invece, tendo man mano a focalizzarle, finché non funzionano altrettanto bene.
Mi verrebbe da dire che il processo di creazione nei miei spettacoli è un rapporto continuo tra proposizioni, reazioni del pubblico, contatti, contrasti e scarti. E la gag che funziona. Ecco questa, per me, è il punto fisso su cui sedimento la drammaturgia.