«Grazie della squisita prova». Morire, sognare. Rinascere, forse

C’è una paura che aleggia, inosservata, all’interno di un teatro, durante uno spettacolo. Una paura dissimulata, impercettibile e sempre attiva; quella di qualcosa che poi non succede mai: la paura di dimenticare la battuta. Da questo spunto prende avvio un discorso che porterà Enzo Vetrano a rievocare, insieme a Stefano Randisi, suo compagno di scena di una vita, i loro anni di lavoro insieme.
E se il vuoto di memoria si manifestasse sul serio? Enzo avrebbe la soluzione: fingere un malore, e poi morire. Tanto lui è bravo a morire, o meglio, a fingere di morire, perché in fondo, grazie al teatro, lui è convinto ormai che non morirà mai. In qualche modo resterà qualcosa di sé: nell’aria, nel vento, nei respiri esalati in un palco, nel ricordo dell’altro. Entra Nicola Borghesi: esordisce parlando delle sensazioni che lo stanno attraversando nell’essere in quel momento sul palco.
Il palco è quello del teatro San Fedele di Montone, un piccolo borgo in provincia di Perugia, dove venerdì 2 dicembre 2022 è andato in scena lo spettacolo Grazie della squisita prova, scritto da Nicola Borghesi dei Kepler-452, con la regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi. In scena tre attori, Nicola, Enzo e Stefano, nei ruoli di loro stessi.
È un viaggio sul senso del teatro oggi. Un dialogo tra chi nel teatro ci lavora da tanti anni e chi, ancora giovane, spera di poter continuare a farlo in futuro, ma non ne è più tanto sicuro, perché in un mondo di guerre ed epidemie si chiede che valore possa avere quell’illusione, quella magia che si crede in teatro vi sia. Nicola fa notare che durante la pandemia non è stata percepita la mancanza del teatro e che probabilmente in caso di guerra i teatri sarebbero i primi a chiudere. Racconta di Mariupol, dove, durante la guerra, il teatro è crollato addosso a coloro che vi si erano nascosti per cercar riparo, perché – come dice l’autore e attore – il teatro sembra un posto sicuro, protetto: nulla di brutto accadrà. E invece la fantasia si scontra prima o poi con la realtà, e questa sembra predominare. Alla luce di queste osservazioni, Nicola chiede a Enzo e Stefano se non si sentano ridicoli, se non provino vergogna, talvolta, se non l’abbiano provata in tutti questi anni. Allo stesso modo, si interroga sul pubblico, sulle ragioni che lo spingano ad essere lì, presente. Segue un momento magico e poetico. Luci, come stelle, proiettate sullo sfondo: li illuminano, li avvolgono. I due attori in coppia, quasi a voler afferrare, insieme agli astri, anche l’ineffabilità del teatro, salgono su una scala, unico elemento scenografico, oltre ad un baule, presente sul palco. Dialogando ricordano e a Nicola rispondono: recitare, ovvero vivere, per quell’attimo di poesia eterna. Il teatro è effimero, eppure continua a esserci, e sempre ci sarà, per quell’unico istante di infinito presente. Ma il momento finisce, la magia si spegne, di fronte a un Nicola che non intuisce, non afferra la forza di quel momento: è affranto, scontento, traviato da una società che ha dimenticato il valore del teatro, o forse non lo ha mai colto. Sembra essersi rassegnato, frustrato dall’ansia sociale di dover fare un lavoro normale. Chi non si rassegna è invece Stefano, che prova a spiegare il senso del teatro richiamando un aneddoto dei suoi anni di formazione: alla richiesta di rappresentare un animale, non aveva solo interpretato una iena, ma l’aveva sentita. La iena era entrata in lui, lui era la iena. Non più separazione. Con ciò sembra voler comunicare che nel recitare non c’è solo un ripetere e un imitare, c’è una sensibilità, un sentire e incarnare una presenza dell’essere. E Nicola non può scappare da questo. Eppure, Stefano sente di non essere riuscito a convincerlo.
Nicola indossa una maschera: rivela che essa è sacra, non può essere toccata. Ma quella sera lui la tocca; la contamina. Quasi come un rifiuto di un teatro che ormai non è più sacro. Rinnega il mistero celato, cui forse, un tempo, aveva accesso.
Ma per Enzo c’è ancora una possibilità di salvezza, così chiede a Stefano di raccontare «la storia dei figli»: Enzo e Stefano non hanno avuto figli, ma – dice quest’ultimo – gli spettacoli sono stati e sono per loro come dei figli.
Chiedono a Nicola un’ultima cosa, prima di andare: gli chiedono di morire. E Nicola finge di morire, o forse no: muore davvero. Perché, al risveglio, qualcosa di lui è morto davvero: una convinzione, un pregiudizio, uno sconforto; qualcosa è morto. Così, risorto come attore nuovo e convinto, non può che concludere esprimendo la propria gratitudine. E ringrazia, ancora una volta, per la squisita prova svolta.

Crediti:

Uno spettacolo di Enzo Vetrano, Stefano Randisi e Nicola Borghesi

Scritto da Nicola Borghesi

Regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi

Una coproduzione Le Tre Corde – Compagnia Vetrano/Randisi e Kepler-452

Con il sostegno di Liberty Associazione

Con il sostegno della Regione Emilia Romagna

Coordinamento tecnico Antonio Rinaldi

Organizzazione Roberta Gabriele

Si ringrazia Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

Foto di Paolo Cortesi

1 commento

  1. Bella recensione, mi piacerebbe vedere questo spettacolo

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