a cura di Lavinia Sarcinelli, Martina Tristano, Carmelo Mulè e Lorenzo Lelli del #NottoLab
Andrea Fabi, autore di se stesso, debutterà al Teatro Palladium il 20 dicembre nell’ambito del progetto Vestiti della vostra pelle, esperimento di residenze artistiche e tutoraggio drammaturgico a cura di Andrea Cosentino e promosso dal progetto Per un teatro necessario del Dipartimento SARAS di Sapienza Università di Roma.
Ci è stata data occasione di assistere a una giornata di prove al Nuovo Teatro Ateneo, abbiamo avuto modo di cogliere i retroscena creativi e personali di Ines, primo studio di Fabi in cui da solo incarna un insieme di minoranze – donna, nera, ebrea, omosessuale – senza però appartenere egli stesso in quanto performer a nessuna di esse; la speranza è di arrivare “per assurdo” alla mente dello spettatore.
Qual è la tua idea dello spazio della scena? Quanto e come hai lavorato sull’organizzazione del movimento? Si evince un grande lavoro di tensioni.
Una parte della tensione che si evince è probabilmente dovuta all’ansia. Per rispondere alla tua domanda possiamo dire che dal punto di vista drammaturgico in uno spettacolo c’è la storia vera e propria, poi c’è una cornice e una serie di espedienti che aiutano a raccontare la storia. In questo caso specifico la cornice è la festa, ma non può essere semplicemente questo: bisogna creare anche un ritmo. Per rendere ciò, l’organizzazione è stata estremamente scabra: con l’occhio esterno di Maria Giulia Colace, ho preso come base delle sequenze di movimento e ci ho lavorato costruendo un percorso di scena. Dopodiché le sequenze bisogna provarle e ripeterle con la musica. Quindi si lavora essenzialmente secondo il ritmo musicale. Le azioni si scelgono in base a quanto funzionano: a una festa se il dj non funziona, non funziona neanche la festa!
In una intervista precedente hai raccontato di essere tornato nuovamente studente all’età di 29 anni quando sei andato a studiare in Belgio. Cosa ti ha portato a questa scelta? Qual è stata la scintilla?
Inizialmente lavoravo in delle compagnie di Viterbo molto piccole. A volte mi spostavo a Roma, o in giro per l’Italia. Ho fatto molta gavetta. Ho lavorato in queste compagnie da professionista per quattro anni. Lavoravo tanto. Volavo basso, ma lavoravo tanto e guadagnavo pochissimo. Vedevo le persone che stimavo che lavoravano in compagnie più grandi di me. A un certo punto mi son detto: o mi muovo adesso, o non mi muovo più! In inglese dicono “è meglio il diavolo che non conosci che quello che conosci”. Quindi sono partito per Bruxelles e, con i soldi che avevo messo da parte in quegli anni, ho iniziato a frequentare una scuola che mi interessava. Lì ho imparato metodi molto pratici e poco intellettuali. Inizialmente facevo molto teatro di parola e usavo il mio corpo poco e male. Ma in quella scuola, a Bruxelles, per me c’è stata una svolta perché da lì in poi ho lavorato per tanti anni solo con il corpo.
La lotta delle minoranze è quantomai bruciante. Come mai scegli tu di interpretare le minoranze pur non essendo né donna, né di colore, né ebreo, né omosessuale?
Ci sono diverse ragioni, la principale è la voglia di divertimento, di gioco. L’obiettivo è affrontare questa tematica in chiave grottesca. Se è vero il discorso che chi salva una vita salva il mondo intero, qui chi non salva una vita condanna il mondo intero. Infatti, questo spettacolo si sarebbe dovuto chiamare “Fashion Victim”: quanto una vittima, una minoranza, dev’essere fashion per essere interessante? Che cosa c’è di più umiliante di dover essere interessante e impietosire, ma non troppo per aver quello che ti spetterebbe di diritto? Perché un manifestante si deve dar fuoco? Perché non c’è la libertà di culto? Perché le donne iraniane si devono tagliare i capelli per poi farsi uccidere? Stiamo parlando di problemi che esistono perché noi decidiamo che esistono. Il terremoto esiste. L’omosessualità come “problema” non esiste, lo abbiamo creatonoi. Quindi mi sono detto: come faccio a parlare di questa cosa? Lo faccio in modo grottesco. Di quali minoranze parlo? quelle più forti, quelle più mediatizzate.
Quindi nel percorso creativo sei partito dal tema, o dal personaggio?
Sono partito dal personaggio. Nella scuola che ho frequentato a Bruxelles si studiava lo stile del “buffone”. A differenza del clown, il buffone agisce con malizia; è un diavolo in paradiso che, utilizzando l’eccesso più estremo, ti dipinge attraverso uno specchio deformante. Anche se poi ti rendi conto che lo specchio in realtà non è deformante. E quindi il buffone ti accarezza per colpirti e non te lo aspetti. Il punto è che se fai una cosa strana i messaggi passano anche senza accorgersene. Nel mio spettacolo non ci sono dei messaggi che portano avanti le istanze di queste minoranze (a cui io non appartengo). In realtà la tematica vera è il rapporto fra maggioranze e minoranze.
Che differenza c’è tra lavorare in gruppo, in cui la responsabilità finale è divisa tra attore e autore, e lavorare da solo?
Entrambi i modi possono essere belli o brutti. Nel mio caso ho dato poco spazio all’autorialità, sostanzialmente per ragioni economiche. Quando lavori da solo, sei solo. È come un fuoco che si spegne in continuazione ed è una fatica enorme tenerlo sempre acceso. Per me quella di un artista che lavora da solo è una macchina in un clima freddo: non la devi mai far spegnere altrimenti non riparte più. Questo è faticosissimo perché tutti ti aiutano a far meglio lo spettacolo, ma nessuno sta con te nei momenti critici. Quindi è difficile. Però avevo assolutamente bisogno, da un punto di vista attoriale e artistico, di pensare che, in ogni caso, tutto ciò che avrei fatto sarebbe stata una cosa mia al 100%. In un “solo” teatrale puoi dire ciò che vuoi come vuoi. Tecnicamente non hai limiti se non l’entusiasmo, che si può spegnere, e l’incapacità di vedere le cose dall’esterno. Fare teatro da solo è una grande libertà.
Tempo fa hai detto: «I sogni dell’attore durano una stagione e poi passano. Godiamoceli finché ci sono». Cosa vuol dire?
Quando ho detto questa frase era l’anno in cui avevo intrapreso una serie di lavori importanti. Il primo spettacolo che ho fatto ho pensato: «Cavolo, sono al Metropolitan di New York! Fino all’altro ieri chi mi conosceva? Nessuno». Ma poi c’è una parte molto saggia di me che mi ha detto: «Andrea, ma chi ti calcolerà dopodomani? Anzi, adesso!». In questo senso “i sogni di un attore durano una stagione”. Quest’anno ho finito di lavorare con William Kentridge, dopo 8 anni di sicurezza economica e di lavori molto ben pagati in giro per il mondo. Ma mi ero reso conto di essere solo un piccolo ingranaggio. Allora, a un certo punto, ho preferito continuare per la mia strada, ho sentito l’esigenza di essere io a raccontare qualcosa. Perché le cose non dette, anche quelle belle, ti fanno male; sono bellissimi frutti che però marciscono se rimangono dentro. Perciò la va, o la spacca. Che poi in realtà “la va” sempre, solo che abbiamo tanta paura di questo “spacca”. Chissà perché!