A chiudere le serate di restituzione pubblica del percorso di residenze artistiche del progetto Vestiti della vostra pelle, Kontra Moenia che andrà in scena al Teatro Palladium il 20 dicembre con Una rissa, ovvero come ci sono finita io qui uno studio di spettacolo che ha preso forma a PERIFERIE ARTISTICHE, Centro di Residenza della Regione Lazio – Settimo Cielo di Arsoli, partner del progetto. La compagnia infatti, avendo ricevuto una menzione speciale dal suddetto bando, è l’unica a non aver realizzato il proprio lavoro nello spazio del CREA – Nuovo Teatro Ateneo della Sapienza Università di Roma, per cui non ci è stato possibile assistere alle fasi di creazione e allo sviluppo del progetto. Abbiamo però intervistato Arianna di Stefano, attrice e co-autrice, insieme a Livio Remuzzi, di Una rissa, ovvero come ci sono finita io qui.
Chi sono i Kontra Moenia. E a cosa si riferisce il nome?
Kontra Moenia è una compagnia abbastanza giovane: da qualche anno siamo io e Livio Remuzzi e svolgiamo un lavoro di ricerca indipendente sia sulla drammaturgia originale e la ricerca di nuovi linguaggi, sia sull’ibridazione di questi tramite una loro commistione: proviamo, cioè, a mettere in dialogo video-proiezioni, danza, microfoni ecc… A seconda di ciò che il progetto richiede al momento della creazione. È un po’ il manifesto della compagnia, a cui si riferisce anche il nome Kontra Moenia: cercare di andare contro le chiusure mentali, le definizioni monolitiche e le etichette, per un’apertura e una freschezza nell’approccio alla frammentarietà delle cose. Letteralmente il nome indica andare “contro i muri”, per destrutturare i linguaggi codificati coltivando la poetica del frammento. Questa è la cifra artistica di Kontra Moenia.
Fino ad adesso abbiamo portato a termine due lavori: uno finalista alla Biennale di Venezia di qualche anno fa (LIS…A – frammenti in gran parte dispersi), un progetto sulla caduta come metafora del fallimento, e Storia di uno che mi somiglia, uno spettacolo più simile ad una stand-up comedy e al teatro di narrazione. Abbiamo fatto l’anteprima dello spettacolo al Teatro Quarticciolo lo scorso ottobre e poi a novembre siamo stati in scena tre giorni al teatro Fortezza est, all’interno della stagione Voli pindarici.
In cantiere ci sono comunque tanti altri progetti, tra cui quest’ultimo, Una rissa, che presenteremo come un primo studio di 25 minuti al Teatro Palladium il prossimo 20 dicembre.
Come siete arrivati al bando e che tipo di esperienza è stata Vestiti della vostra pelle?
Siamo stati molto contenti di partecipare a questa iniziativa. Essendo una compagnia di teatro indipendente, auto-produciamo i nostri spettacoli e quindi siamo sempre in ricerca di residenze artistiche e di tutoraggi, come per Vestiti della vostra pelle, che ci diano l’occasione di lavorare sui nostri progetti, offrendoci anche l’opportunità di debuttare in spazi teatrali significativi.
In questo caso siamo stati molto fortunati, perché abbiamo ricevuto la menzione speciale dall’esito del bando, per cui abbiamo avuto la possibilità di fare una residenza di due settimane al teatro La Fenice di Arsoli, ospitati da Periferie artistiche e Settimo cielo. Abbiamo lavorato ininterrottamente: dalla mattina alla sera stavamo in teatro. Andrea Cosentino ci ha seguiti con un intensivo di tre giorni, invece che per tre ore diluite nel tempo (com’è stato, invece, per gli altri artisti delle residenze didattiche, svoltesi al Teatro Ateneo per circa due mesi, n.d.r.).
Cosentino ci ha aiutato a mettere “i puntini sulle i”, a fare ordine tra i nostri pensieri e a prendere delle scelte: ci ha aiutato a chiarire le idee, in modo sempre delicato, “in punta di piedi”, cercando di non ostacolare mai le nostre iniziative. Anzi, direi che il suo intervento è stato un catalizzatore di quello che volevamo dire. Infatti, nei giorni insieme a lui abbiamo scritto tantissimo, abbiamo, cioè, reso concreto quello che per tutto il periodo di residenza avevamo soltanto nella nostra testa. È stato preziosissimo.
Di cosa tratta il vostro spettacolo?
Il percorso che ci ha portato all’ideazione di questo progetto è molto arzigogolato. Io e Livio nasciamo come attori, ma dopo la pandemia ci siamo messi alla prova nel campo autoriale: in me è nato il demone della regia e della scrittura, mentre in Livio in modo preponderante quello della scrittura. Io ho seguito diversi corsi di drammaturgia, tra cui quello di Roberta Nicolai di Teatri di vetro. Il laboratorio si chiamava Fame di realtà e l’idea era quella di far nascere una scrittura da un evento reale, cioè da qualcosa che fosse realmente accaduto. Qui è nato l’embrione del progetto Una rissa. Avevo assistito a una piccola rissa in metropolitana e da lì ho cercato di indagare il concetto di massa, come i corpi si comportano in relazione a dei movimenti che avvengono in maniera anarchica e casuale. Ho approfondito questa intuizione, studiando i testi di George Perec, Elias Canetti, la Psicologia delle masse di Freud, spaziando tra romanzi, saggi e trattati di psicanalisi. Quello che ne è uscito è un qualcosa di abbastanza folle. Ho cominciato registrando alcune voci di persone mentre camminavo nei dintorni della Stazione Termini. Ho disegnato successivamente su un grande foglio l’elenco di questi passanti sconosciuti, sviluppando per ognuno di loro un frammento di storia, un loro modo di parlare…
Di tutti questi passanti alla fine è rimasta una sorta di danza, una lotta nonsense, in cui si inserisce Livio riportando il mio discorso astratto su un piano razionale. Ci interessa riflettere sulla relazione tra il piano reale e il piano astratto e come questi due mondi possano coesistere all’interno delle stesse frequenze percettive. Questa linea di confine, che nello spettacolo è rappresentata simbolicamente dalla linea gialla della metropolitana, vuole essere un interrogativo sulla libertà artistica.
Posso scegliere come leggere il mondo intorno a me? Quanto ci condizionano l’educazione, le abitudini, la cultura? È possibile portare in scena una libertà artistica che sia anche rischiosa per noi? Tentiamo di capire qual è il confine di questa libertà, di questa linea gialla interiore. Quindi è un lavoro che ha molto a che fare con il coraggio, con la libertà artistica e individuale. È un collage dei frammenti di tutte queste persone, cose, odori e sensazioni che ci abitano e che diamo per scontato. I venticinque minuti dello spettacolo che andrà in scena al Teatro Palladium sono ancora l’embrione di questa ricerca che vorremmo poi sviluppare. Per adesso è una forma semi-organizzata di caos, inframmezzata da interventi lucidi.