Un silenzio denso attraversa il palco e si diffonde nel resto del teatro. È un silenzio sacro, pieno di significato. Pieno nel suo essere abbandono. Abbandono al sogno, all’amore?
Abbandono del sogno e dell’amore. Un attimo sospeso nell’attesa, come un gabbiano in volo prima della caduta. Come il suo respiro prima dell’addio. Fu ad un certo punto poco dopo l’inizio dello spettacolo che si manifestò questa viva presenza descritta, apparsa come a dare un senso al tutto. Un senso a un testo che contempla il vuoto aperto dalla scelta, che conduce a una rinuncia o all’acquisizione di una nuova consapevolezza. Lo spettacolo è Il Gabbiano di Čechov, andato in scena a marzo 2023 al Teatro degli Illuminati di Città di Castello, con la regia di Leonardo Lidi. Il regista, fedele al testo nel rispetto dei dialoghi, restituisce nuova vitalità all’opera nella costruzione di ulteriori simboliche immagini. Il palcoscenico, privo di fondale, si estende in profondità creando uno spazio per l’attesa degli attori-personaggi quando non direttamente coinvolti nell’azione. Al centro, come unico oggetto scenografico, una panchina, dove a inizio spettacolo siede Mascia, «in lutto per la vita»: è il luogo scelto per assistere allo spettacolo scritto da Konstja, ma anche il luogo dove siederà Nina, prima con Konstja e poi con Trigorin. È la stessa panchina su cui verrà deposto il gabbiano morto, rappresentato da un mazzo di fiori coperto da un fazzoletto bianco. Un significato simbolico permea tutti gli oggetti scenici: come il gabbiano è metafora di libertà e aspirazione ideale, così la panchina è posto sicuro e riparo, ma anche luogo dove amore e morte si fondono. Il desiderio e la passione dei personaggi virano infatti verso la distruzione di se stessi o degli altri.
Quella che emerge dallo spettacolo è una Nina meno sognante rispetto all’originale, ma forse più umana nella sua concretezza e nel suo opportunismo terreno. Il suo forte conflitto sfocia nell’acquisizione di una consapevolezza: più che gloria o denaro, ciò che conta è saper sopportare.
Altro tormento interiore centrale in questa riscrittura è quello del tenace Konstantin Treplev, il quale, nonostante la realizzazione delle sue aspirazioni, non riesce a sciogliere i nodi di quell’infelicità di fondo e di quel dolore e si condanna all’autodistruzione.
Distrutto è ormai anche il suo teatro, rappresentato nell’ultimo atto dal faro dell’americana che viene calato a terra, a dare l’idea del palco dismesso. Ancora un oggetto evocativo di un senso di abbandono.
Qui un ultimo ballo, che rimanda a un’atmosfera diversa rispetto ai momenti danzanti precedenti. Il ballo, metafora della vita, è l’unica scelta possibile, anche quando rallenta e si cristallizza in corpi via via più stanchi e anchilosati. Invecchiati e sempre più fossilizzati nelle loro convinzioni ed egoismi, quasi “morti dentro”, i personaggi continuano a danzare, a restare in gioco, aggrappati – con rassegnazione – alla vita, come rappresentato anche dalla tombola finale, a cui tutti partecipano. Tutti a eccezione di Nina, di Konstja e dello zio. Quest’ultimo, rimpiangendo il sogno di una vita che non ha vissuto, si lascia scivolare a terra, morente, vestito di bianco, come una sorta di fantasma di quel gabbiano ormai lontano, dimenticato. Resta un’immagine evocata, un bianco che macchia l’oscurità interiore di vite distrutte. Resta l’eco del ricordo, in un tempo che è morto, congelato nel passato perduto. Resta l’ombra del gabbiano, di cui oramai inudibile è il richiamo.
PROGETTO ČECHOV – prima tappa
Da Anton Čechov
Regia Leonardo Lidi
Con Giordano Agrusta (Semen Semenovič Medvedenko), Maurizio Cardillo (Evgenij Sergeevič Dorn), Ilaria Falini (MaŠa), Christian La Rosa (Konstantin Gavrilovič Treplev), Angela Malfitano (Polina Andreevna), Francesca Mazza (Irina Nikolaevna Arkadina), Orietta Notari (Petr Nikolaevič Sorin), Tino Rossi (Il’ja Afanas’evič Šamraev), Massimiliano Speziani (Boris Alekseevič Trigorin), Giuliana Vigogna (Nina Michajlovna Zarečnaja)
Scene e luci Nicolas Bovey
Costumi Aurora Damanti
Suono Franco Visioli
Assistente alla regia Noemi Grasso
Produzione Teatro Stabile dell’Umbria, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
In collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi
Foto Gianluca Pantaleo