Il Teatro Lo Spazio si trova poco più in basso della basilica di San Giovanni in Laterano, in fondo a una viuzza che sembra non condurre da nessuna parte, ma che alla fine si apre su uno spiazzo decorato da piante in fiore. Al suo interno la sala è piccola, palco, platea e bar sono tutti nello stesso ambiente.
Per sfruttare a pieno lo spazio della sala, il regista ha voluto che le sedie destinate agli spettatori fossero disposte su file perpendicolari al palco e parallele a una piccola sezione dello stesso e intorno al bancone del bar, dove si svolge il secondo atto.
Benedicta Boccoli e Claudio Botosso interpretano in due atti unici personaggi senza nome. Nel primo, ambientato la mattina dell’11 settembre 2001, due monologhi si intrecciano tra loro: come durante una partita di tennis, ci si muove dall’uno all’altro incessantemente. Man mano si scopre che Lei, quella mattina, si è recata in clinica per abortire, mentre Lui, che avrebbe dovuto accompagnarla, è stato costretto dal suo capo a partecipare a una colazione di lavoro, lasciandola sola. Quando Lei ha ormai concluso, ascolta un messaggio che il marito le ha lasciato in segreteria telefonica: «Possiamo tenere il… coso». Ormai però è troppo tardi. Lei sta tornando a casa e il marito si sta recando al lavoro, al Word Trade Center.
Il pubblico sa cosa accadde quel giorno e intuisce come andrà a finire. L’attentato fa da sfondo alla vicenda intima, ma non è il focus dell’atto. L’autore pone in relazione la precarietà del nostro equilibrio quotidiano con i grandi eventi del mondo, per cui sembra che sia il caos il vero demiurgo delle nostre esistenze.
Il secondo atto invece, apparentemente senza alcun legame col primo, si svolge durante il periodo natalizio. Una coppia fa compere in un centro commerciale. Lei, incinta, riesce a far confessare il tradimento al marito, colto in flagrante dopo molti sospetti.
I due atti sono differenti anche nella regia. Più statico il primo, impalpabile e simbolico, gioca poco con lo spazio. I due attori sono di fronte al pubblico, seduti su sgabelli. Il secondo invece è molto più dinamico; sul palco gli attori non salgono mai, si muovono per la platea, o forse siamo noi a occupare il loro spazio scenico, un po’ voyeurs e un po’ performer. Per quanto i due personaggi infatti si rivolgano spesso al pubblico dicendo «tu», «voi» (molto più nel primo atto che nel secondo), per quanto camminino vicino agli spettatori, la scena si svolge comunque in modo frontale e si ha la continua impressione che la quarta parete possa rompersi da un momento all’altro.
Ciò che unisce i due atti unici è la gravidanza. Nel primo caso il bambino rappresenta qualcosa che divide la coppia, Lei segue il desiderio del marito e accetta di abortire, ma di fatto non rivela mai quale sia il suo volere; Lui non vuole un figlio eppure cambia idea. Il bambino è il campo di un tacito scontro. Diverrà legame proprio quando non ci sarà più. «Mi mancano entrambi» dice Lei.
Nel secondo atto il bambino in arrivo sembra essere un motivo per andare avanti, per costruire una nuova esistenza di coppia dopo la scoperta del tradimento. Tuttavia non funziona: finché il bambino vive la coppia non può esistere, quindi la gravidanza deve terminare per dare alla coppia stessa un degno finale – dato che l’opzione che i due rimangano insieme Lei non la contempla nemmeno.
In entrambi i casi si tratta di un figlio che non ha valore di per sé, ma è uno strumento. Nel primo atto Lei si aggrappa al bambino per ricordare il marito, che in un inconsapevole ultimo desiderio le aveva proposto di tenerlo. È il ricordo dei due, la loro memoria, che la tiene in vita. Nel secondo atto il bambino è strumento, ma in senso opposto. La sua memoria non va preservata, ma rimossa, per porre fine alla coppia. Il ricordo non è più il luogo ameno in cui trovare conforto.
Anche per quanto riguarda l’oggetto di scena del telefono, nel primo atto è un appiglio salvifico per ascoltare in continuazione il messaggio in segreteria, mentre nel secondo è l’ennesima, odiosa conferma del tradimento di lui.
I due atti viaggiano su binari paralleli, ma in direzioni opposte. Una coppia che appare separata, Lui burbero e Lei pedante, si unisce per sempre. L’altra coppia, che vive nelle piccole tradizioni del quotidiano, finisce per morire in un eclatante silenzio. L’esistenza della prima è sconvolta dalla casualità degli eventi, quella dell’altra è distrutta dalle scelte consapevoli dei due componenti.
L’equilibrio tra divertimento e pena è ben calibrato. Ci divertiamo e ci commuoviamo senza propendere troppo né verso l’uno né verso l’altro stato d’animo.
Dis-order
Testi originali di Neil LaBute
Traduzione di Marcello Cotugno e Gianluca Ficca
Regia di Marcello Cotugno
Aiuto regia Arianna Cremona
Con Benedicta Boccoli e Claudio Botosso