Dire che Carlo Goldoni è stato un genio suona come ovvietà, i suoi testi incorniciano nell’eternità del passato un ventaglio di personaggi e situazioni che hanno attraversato secoli senza perdere brillantezza. Tra i suoi titoli molti hanno avuto (e hanno) una ricca fortuna di messinscena, ma il primo a cui spesso si pensa è La locandiera.
Non pochi vi riconoscono una spinta femminista affibbiandogli una categoria a posteriori, ma certo è che Mirandolina ha una energia che prorompe nel linguaggio e nello scegliere, astuta ed “emancipata”, cosa fare del suo cuore e del suo corpo. Posta così si fa fatica a immaginare come sia stato scritto nel 1752, ma così è. Mirandolina porta in sé il desiderio di riscatto sociale tipico della società del tempo in cui sempre più si affermava una classe borghese decisa a buttar giù dalla torre la tronfia nobiltà che aveva fino a quel momento spadroneggiato. E, allo stesso tempo, è donna – l’intersezionalità delle lotte è forse più lontana di quanto pensiamo.
Ma c’è un’altra ragione per cui, mi pare, Goldoni e La locandiera restano un must. Personaggi, linguaggi, scenari e situazioni si prestano al gioco dell’attore e offrono all’istrione materia con cui divertirsi. Non è difficile ricondurre questo aspetto al fatto che, allora, l’“attore” fosse ancora un discendente dei comici dell’Arte. Sul filo di questa parentela si regge la regia di Andrea Saitta, portata in scena al Teatro Libero di Palermo.
L’iniziale pantomima in silhouette dichiara subito che si tratta di un gioco in cui il corpo la fa da padrone, marchingegno di gesti e movimenti precisi in cui anche quel che pare sgangherato e goffo è in accordo al disegno comune. Saitta ha una storia legata all’arte circense e maneggia bene gli schemi della maschera, gli umori del mimo. Perciò appare giusta, pur se radicale, la scelta di questa sua Locandiera in cui Mirandolina è muta, ma non per questo “penalizzata”: dispensa sorrisi ora furbi, ora garbati, con gesti sicuri e movimenti che “parlano” per lei, sminuisce o asseconda i capricci e le capriole dei suoi pretendenti.
Al contrario, Il Conte di Albafiorita e il Marchese di Forlimpopoli (Ivan Graziano e Norman Quaglierini), con la sciocca sicumera della loro nobiltà (vera o sedicente) gareggiano come galli in un pollaio in cui Mirandolina non è gallina ma elegante pavone; le commedianti Ortensia e Deianira – interpretate dagli stessi due attori con minimali ma efficaci travestimenti – si arrabattano e si accapigliano, piangono, ridono, gridano evidenziando l’aspetto comico dei personaggi, calcando la mano in qualche caso, pur senza scadere. Ma è comprensibile: davanti a un pubblico che risponde e ride generoso, la tentazione di cedere al divertimento anche un po’ oltre i bordi è quasi irresistibile per l’attore.
Saitta serba per sé i ruoli del Cavaliere di Ripafratta e di Fabrizio, li indossa con elegante misura, specie quello dell’anti-cavalier servente Fabrizio che pur divertendo conserva un alone di leggerezza poetica. Come impalpabile è a tratti Maria Chiara Pellitteri che dà a Mirandolina una certa grazia, una compostezza ribelle come quella dei lunghissimi capelli ricci che porta.
L’allestimento è semplice, oggetti pochi e tutti utili, belli i costumi di Alessandra Bruni colorati e con riferimenti “carnevaleschi” in odor di Settecento.
La Locandiera – Esprit de pomme de terre
liberamente ispirato a La Locandiera di Carlo Goldoni
regia Andrea Saitta
con Ivan Graziano, Maria Chiara Pellitteri, Norman Quaglierini, Andrea Saitta
scene e costumi Alessandra Bruno
luci Nicola Pfeifer
ricerca musicale Andrea Saitta
Produzione Compagnia Decalé / Compagnia dell’Arpa – Enna