È uno Shakespeare burattinaio quello che, sul palco, muove da lontano le membra di due attori e dialoga con loro. Rendere l’autore personaggio permette la trasposizione teatrale di Venere e Adone, celebre poema, e non opera teatrale. Di amore e morte si parla, eros e thanatos: Venere, Melania Giglio, insegue Adone, interpretato dal giovane Riccardo Parravicini. Innamorata di lui, lo desidera e lo chiama, mentre egli scappa, fa finta di nulla, si distrae.
L’infatuazione di lei è tracotante, e si scontra con la pudica freddezza del ragazzo: «Voglio andare a caccia del cinghiale!», dice. Sarà proprio il cinghiale causa della sua morte, il giorno successivo, per via di una tragedia che la dea aveva sognato e predetto.
Lo spettacolo si conclude sull’ira di Venere la quale, avendo perduto il suo gioiello, maledice amore e lo condanna ad accompagnarsi costitutivamente al dolore.
«Apprezzatissimo fra gentiluomini e cortigiani, in breve divenne una sorta di vademecum dell’amatore, ugualmente popolare nella biblioteca, nel boudoir e nel bordello».
Il testo in esame possiede un grande valore storico, in quanto ebbe un immenso successo popolare. Il poema risale al 1593, anni in cui Londra era invasa dalla peste e i teatri dovettero chiudere i battenti. Ispirato ai temi del decimo libro della Metamorfosi di Ovidio, Shakespeare lo definì «il primo parto della mia fantasia».
La messa in scena si regge sulla concretizzazione simbolica di alcuni elementi del testo: Shakespeare tiene in mano il Sole quando ne parla, Venere possiede una gigantesca gabbia dentro cui rinchiudere l’amato, Adone possiede un arco e il cinghiale appare per davvero sul palcoscenico, attraverso una suggestiva maschera vestita di nero, che lancia sangue sulle pareti. Gli attori corrono, si arrampicano, cambiano posizione e si fermano a riflettere.
Come una prugna troppo verde per essere colta, Adone rifiuta l’amore perché troppo precocemente richiesto, mentre accompagna le sue parole con la riflessione: mentre l’«amore è andato in cielo, sulla terra è rimasta solo la lussuria». La visione del ragazzo, implicante purezza e forza di volontà, non si è certi se costituisca un ideale verso cui tendere o le ancora troppo illuse fantasie della giovinezza. Piuttosto che dalla freccia d’amore, Adone viene colpito dalla «puntura d’ebano della morte», e il suo corpo giace a terra senza vita, rovesciato in avanti dentro la costruzione di scena. L’interpretazione di Parravicini, essenziale e solida, è apparsa convincente e ha riscosso l’approvazione del pubblico.
Il personaggio di Venere ha invece concesso a Melania Giglio la possibilità di dar mostra delle proprie doti canore: due brani sono stati riportati in originale inglese, e interpretati con intensità e abilità dall’attrice, che ha dovuto memorizzare un gran quantitativo di battute, di molto superiore a quello degli altri due personaggi. Il suo personaggio, colmo di tracotanza, era un continuo cambiare d’umore, seppur sempre sostenuto dal desiderio impellente di amare: alla morte di lui si risolve che sia morto, poi che non lo sia, maledice la morte e poi le chiede perdono per le sue offese, infine, prendendo atto della tragedia, il suo cuore, dice il testo, si trasforma in piombo e cala in una disperazione silenziosa. Dal bel viso di Adone, sfregiato dal cinghiale, nasce un fiore che fa colare verdi gocce che la dea chiamerà «lacrime».
Venere e Adone
di William Shakespeare
con
Gianluigi Fogacci (William Shakespeare)
Melania Giglio (Venere)
Riccardo Parravicini (Adone)
regia, traduzione e adattamento di Daniele Salvo
musiche di Patrizio Maria D’Artista
costumi di Daniele Gelsi
direzione tecnica di Stefano Cianfichi
disegno luci di Umile Vainieri
disegno audio di Daniele Patriarca
scene di Fabiana Di Marco
assistenza alla regia di Alessandro Guerra