Umberto Orsini si può considerare una delle colonne portanti del teatro italiano, dalla seconda metà del Novecento a oggi. Oltre alle innumerevoli produzioni a cui ha preso parte, va ricordata la sua adesione alla Compagnia dei Giovani, in cui viene a contatto con volti noti quali Giorgio De Lullo, Elsa Albani, Rossella Falk, Carlo Giuffrè. Ma come è iniziata la sua carriera nello spettacolo?
L’attore ne parla proprio nel corso dell’incontro che si è tenuto con gli studenti universitari di Sapienza Università di Roma, facente parte del ciclo Artigiani di una tradizione vivente del progetto Le Lacrime della Duse, il patrimonio immateriale dell’attore, organizzato dalla Compagnia Mauri Sturno in collaborazione con CREA-Nuovo Teatro Ateneo.
Orsini si racconta ai giovani auditori, iniziando dal suo primo approccio alla teatralità: un approccio nato per caso in quello studio notarile di Novara, la sua città natale, in cui faceva praticantato dopo la laurea in giurisprudenza. Leggendo un atto notarile, qualcuno fu colpito dalla sua “interpretazione” e dalla sua voce, e il giovane Umberto fu spinto così a iscriversi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma. Egli afferma che la sua vocazione si è precisata nell’arco di un lungo processo, nel corso del quale si è reso conto di quanto sia assolutamente necessario per l’attore capire, studiare, approfondire. D’altronde, Jouvet diceva che la vocazione è qualcosa che, se arriva, arriva alla fine, dopo aver affrontato tante fasi, positive o negative che siano.
Umberto Orsini si sofferma su un concetto interessante del mestiere del teatro, e della relazione fra questo e l’attore: la lotta con la parola e il testo. Afferma che la sua carriera è stata fortemente caratterizzata da questo aspetto, e si definisce come un attore perennemente attento alla parola, e in particolare all’intonazione e alla situazione, intesa, quest’ultima, come l’insieme di regia e drammaturgia. Le parole che l’attore impara e che possiede grazie alla lettura del testo sono poi da arricchire con l’intonazione, e spetta anche alla regia aiutare l’attore ad “arricchire” ciò che è scritto sul copione. È necessario imparare a memoria il testo, cosa non del tutto scontata all’epoca in cui Orsini mosse i primi passi nel mondo del teatro. E qual è il metodo che usa per apprendere un testo? Semplicemente lavorarci pian piano, poche righe al giorno, ogni giorno; lavorare sul testo, ma anche accorciarlo o spostare qualcosa fa parte del mestiere dell’attore.
L’espressività dell’attore è caratterizzata, per Orsini, anche da un altro elemento, tra i tanti fondamentali, per la trasformazione in personaggio: il trucco. «Mi sono sempre truccato», afferma, prendendo ad esempio il caso dello sceneggiato televisivo RAI del 1969 I fratelli Karamazov che lo vide protagonista, nel ruolo di Ivan – naturalmente –, al fianco di Carlo Simoni, Corrado Pani, Salvo Randone. In quell’occasione, il trucco, in particolare il tingere i capelli di biondo, fu necessario per una sorta di distinzione del proprio personaggio.
L’attore racconta anche della sua esperienza con Luchino Visconti, e si sofferma sulla sua caratteristica d’essere “soltanto regista” e non attore, motivo per il quale “proteggeva” i suoi attori, senza ritenersi superiore per esperienza, facendogli, anzi, tirar fuori ciò che non avevano mai espresso prima. E fu proprio Visconti, inoltre, a suggerirgli un simpatico metodo per imparare a muovere il corpo in scena: Orsini avrebbe dovuto immaginare, durante una scena di corteggiamento, di star giocando a pallone. Un apparente paradosso grazie al quale, la prima volta, in cui si rese conto di quanto siano importanti per l’attore l’articolazione della postura e il controllo del corpo.
E come cambia negli anni la performance dell’attore, in particolare in uno stesso spettacolo? Secondo Umberto Orsini l’attore inevitabilmente cambia e matura negli anni, grazie all’esperienza che accumula, e dunque, anche su uno stesso testo rappresentato anni prima, la maturazione personale influisce parecchio. A tal proposito, l’attore riporta un aneddoto personale riguardante la sua interpretazione de Il Misantropo di Molière: definita «bellissima, difficile» dieci anni prima, fu ritenuta «bellissima, commovente» dieci anni dopo. A cambiare quel secondo aggettivo era stata proprio la maturità acquisita dall’interprete in quel decennio di distanza tra l’una e l’altra.
Lo stesso Orsini ritiene infatti che un attore dice ogni sera le stesse cose, ma di sera in sera le cose intorno cambiano, cambia il pubblico e dunque cambia anche la relazione che è ciò che rende, in fondo, utile il lavoro dell’attore. L’attore è utile alla società in quanto propone qualcosa, che deve arricchire il pubblico. Su questo interviene anche Glauco Mauri, riportando un esemplare episodio avvenuto durante una messa in scena di Finale di partita: due signore, in camerino, lo ringraziarono dicendogli di non essere abituate a questo tipo di teatro, di non aver capito tutto, «ma abbiamo capito che si parlava di vita». E avevano capito proprio tutto.
Glauco Mauri e Umberto Orsini raccontano di un altro aspetto interessante della vita in teatro: il “rubare”, un movimento, un’espressione, osservando in scena altri attori. Mauri dice di aver “rubato” soprattutto a Renzo Ricci, mentre per Orsini è Enrico Maria Salerno a poter essere ritenuto un vero e proprio modello. Salerno fu anche sua guida per quanto riguarda la registrazione delle scene televisive, decisamente più lunghe di quelle teatrali, alla quale non era abituato prima de I fratelli Karamazov.
Emozionarsi è la parola chiave in teatro per Glauco Mauri, e lui ha cominciato a emozionarsi ben presto, da ragazzo, in quegli anni in cui soluzioni come gli effetti speciali erano sicuramente ingenue per cause economiche, ma che riuscivano in ogni caso ad impressionare lo spettatore.
Sollecitato da alcune domande Umberto Orsini parla della concentrazione in scena, del suo non avere particolari rituali prima dello spettacolo, né tantomeno emozioni, poiché queste sono esclusivamente da dare allo spettatore. I maestri di Orsini hanno smitizzato l’attaccamento al personaggio, che egli riferisce di lasciare lì in camerino, a fine spettacolo, senza portarlo nella vita di tutti i giorni. L’attore afferma di essere orgoglioso del suo lavoro, e non è stanco di essere ogni sera in scena, ma è anzi entusiasta di essere testimone di qualcosa per le nuove generazioni. Domani il teatro continuerà ad esistere, non ha dubbi, seppur tra sempre maggiori difficoltà, perché aveva ragione Bertoldt Brecht – citato da Mauri: «tutte le arti contribuiscono all’arte più grande di tutte, quella del vivere».