Gabriele Lavia è ospite, nel pomeriggio del 21 novembre, al Teatro Ateneo dell’Università La Sapienza in occasione del terzo incontro del ciclo Artigiani di una tradizione vivente, parte del progetto Le Lacrime della Duse, il patrimonio immateriale dell’attore, organizzato dalla Compagnia Mauri Sturno in collaborazione con CREA-Nuovo Teatro Ateneo. Mediano Glauco Mauri e il professor Guido Di Palma.
«Il microfono ruba la voce all’attore e la consegna alla macchina, all’altoparlante». Inizia così l’incontro con Gabriele Lavia, in scena, dal 31 ottobre al 19 novembre, al Teatro Argentina con Un curioso accidente di Carlo Goldoni. L’attore tocca da subito il tema dell’utilizzo, a suo parere inopportuno, dei microfoni in teatro, raccontando l’aneddoto di quando, da piccolo, fu portato al Teatro Greco di Siracusa, e notò come, in quella cornice, la voce arrivasse in modo naturale fino all’ultima gradinata.
«Cos’è la tecnica per l’attore?» è il primo quesito che gli viene posto. E Gabriele Lavia risponde che non è tutto, ma è tutto ciò che serve all’attore per fare di sé ciò che è. Afferma infatti che l’attore mette in scena – così come il pittore mette su tela – la sua verità; dunque lo spettacolo è una forma d’arte a tutti gli effetti. Egli deve essere attore, ovvero far sì che lo spettatore sia appunto spettatore della messa in opera della verità, in un rapporto vivo tra pubblico e interprete. E cos’è la verità? Heiddeger la definiva “la svelatezza dell’essere”.
Passando al piano personale, Gabriele Lavia individua quelli che per lui sono i migliori attori del suo tempo: il compianto Turi Ferro e Glauco Mauri. A tal proposito, ricorda che anche Strehler riteneva Ferro e Mauri attori esemplari, ed era solito dire, durante le sue prove, «qui ci vorrebbe Mauri», «qui ci vorrebbe Ferro». Aggiunge Glauco Mauri che Strehler aveva lacapacità di capire anche ciò che i suoi attori non riuscivano a esprimere.
Gabriele Lavia è stato allievo di insegnanti illustri, quali Sergio Tofano, Jone Morino e Orazio Costa. I primi due non avevano un metodo definito, lavoravano soprattutto sulle intonazioni. Orazio Costa, invece, aveva sviluppato un metodo definito “mimico”, tramite cui il logos (la parola) diventa physis (il corpo, la fisicità). Alcuni esercizi che proponeva consistevano nel descrivere con il corpo una qualunque parola venisse in mente. Per Costa la parola è successiva dunque alla fisicità e al sentimento che scaturisce da questa. Lo stesso Strehler ammirava Costa, definendolo «un’altra storia». Un altro aspetto ammirevole di questo maestro del teatro era la sua capacità di lavorare con i versi, in particolare con quelli danteschi, ed è proprio lavorando sui versi che l’attore acquisisce la padronanza della parola.
E poi i racconti su Tino Buazzelli, su Luca Ronconi, su quel mondo dei decenni passati ricco di fame per il teatro, e quei teatri romani che furono cornice dei più grandi spettacoli – come il Teatro Valle, che ospitò la controversa prima dei Sei personaggi in cerca d’autore, ormai un secolo fa, o il Teatro Eliseo – e che ormai hanno chiuso i battenti. E ancora, il commovente racconto sulla morte di Memo Benassi, sui lavori di Lavia con Renzo Ricci al Teatro Argentina, che contribuiscono a ripercorrere la carriera e la vita dell’ospite dell’incontro.
«Recitare è contraddire te stesso», afferma Gabriele Lavia. D’altronde re-citare significa, etimologicamente, citare di nuovo qualcosa di preesistente: ma la replica, sera dopo sera, non deve mai annoiare l’attore, continua Glauco Mauri. Entrambi condividono l’idea che il rapporto pubblico-attore agisce influenzandosi reciprocamente: l’interprete ha il compito di gestire questo rapporto, e di unire gli spettatori in un corpo unico che reagisce a ciò che vede sul palco.
Nel corso dell’incontro si affronta anche l’argomento dello spazio in cui si fa teatro, ossia la sala e il palcoscenico: spesso, soprattutto nella realizzazioni di nuovi luoghi teatrali, non è considerato il punto di vista di chi calcherà quella scena, e non si dà la giusta misura a elementi importanti come l’acustica, lo spazio d’azione dell’attore, la vicinanza con i camerini.
Il teatro, seppur legato all’idea di aletheia intesa come svelatezza, deve mantenere una componente di mistero, che accompagna la messa in opera dell’attore. Ogni personaggio “diventa” proprio dell’attore che lo interpreta. Come diceva Orazio Costa, il personaggio non esiste, solo tramite l’interpretazione esso si manifesta. E come imparare al meglio la parte? È necessario “dimenticarla”, perché, come affermava Rainer Maria Rilke, «importante è ricordare, ancor più importante è dimenticare».
Gabriele Lavia è un grande attore dei nostri tempi. Ma come si pone dal punto di vista registico? A questa domanda da parte del pubblico, risponde prendendo ad esempio il suo ultimo lavoro, Un curioso accidente: lo spettacolo in questione ha previsto una regia complessa, basata su un rapporto di unificazione del palco e della platea ̶ alcuni spettatori prendono posto direttamente sulla scena ̶ . La musica dal vivo, suonata lì, in diretta, senza registrazioni, accade davanti agli occhi degli astanti. Dunque, una regia che mette in evidenza l’estemporaneità dell’evento teatrale, qualcosa che succede in quel preciso momento, davanti allo spettatore, seduto addirittura sul palcoscenico.
Ma il teatro può anche “rovinare” qualcuno? Sì, perché attori si nasce, meno facile è diventarlo. «Non è generoso il teatro», afferma Gabriele Lavia. … «…però è bello!», chiosa Glauco Mauri.
Incontro con Gabriele Lavia
Ospite Glauco Mauri
Conduzione di Guido Di Palma
In collaborazione con Compagnia Mauri-Sturno e CREA – Nuovo Teatro Ateneo
Teatro Ateneo: Università di Roma La Sapienza, 21 novembre 2023