Mimmo Cuticchio racconta che nella Sicilia dei tempi di suo padre, nei primi anni ‘50, i pescatori assistevano incantati per ore alle vicende dei pupi, i celebri burattini di legno siciliani.
Ogni sera, per tre, quattro mesi all’anno, adulti e bambini vivevano le avventure di Orlando, Rinaldo, Angelica e delle altre figure del ciclo dei Paladini di Francia. Il coinvolgimento era tale che quando in scena moriva un personaggio, il pubblico soffriva, si indignava, si preoccupava, arrivando a lanciare le coppole contro il teatrino.
Un pubblico d’altri tempi, spesso analfebeta, di un’epoca in cui la maggior parte degli intrattenimenti era molto semplice; in cui uno spettacolo di marionette era, probabilmente, vissuto con più coinvolgimento rispetto alle migliori serie televisive di oggi.
C’era una maggiore capacità di stupirsi, di un meraviglioso stupore che oggi, senza rendergli giustizia, qualcuno potrebbe definire infantile. Ma non è solo questo. Tra questo pubblico “tradizionale” e il corpus narrativo del teatro di figura, esisteva un legame costruito nel corso degli anni, a partire dalle prime rappresentazioni vissute durante l’infanzia. Gli spettatori, potremmo dire, “diventavano adulti in platea”, affezionandosi gradualmente a storie e personaggi cronologicamente antichi, ma tematicamente senza tempo.
“Come si può fare il cunto senza questo pubblico”, chiede Di Palma, “senza il pubblico tradizionale?”
Come si può parlare a un pubblico radicalmente diverso, con cui non si condivide più quella relazione magica, quel legame speciale di cui dicevamo? Una delle possibili risposte è rappresentata dal lavoro di Mimmo Cuticchio.
Scomparso il retroterra narrativo e culturale condiviso, prosciugatosi in gran parte del pubblico il “meraviglioso stupore”, il teatro di Cuticchio si è trasformato, riducendosi a una grammatica generativa in grado di creare spettacoli, a una forma più essenziale, meno legata a determinati presupposti, ma proprio per questo più versatile, più adatta a essere fruita da pubblici diversi.
Tutta la tradizione di Mimmo, percorre, come un equilibrista, questo sottile filo sospeso tra la tradizione e la modernità, tra il rispetto verso il padre, verso una cultura antica di secoli, e il desiderio di sopravvivere in un mondo all’apparenza alieno.
Questo è quanto fa, a detta del Professor Guido Di Palma, il maestro dell’arte dei pupi siciliani Mimmo Cuticchio, che lo scorso 1 dicembre ha incontrato docenti, studiosi e spettatori affezionati nel complesso universitario del Teatro Ateneo in occasione del penultimo incontro del ciclo Artigiani di una tradizione vivente del progetto Le lacrime della Duse – Il patrimonio immateriale dell’attore, organizzati dalla Compagnia Mauri Sturno in collaborazione con CREA-Nuovo Teatro Ateneo.
Mimmo Cuticchio, che ha portato le antiche tradizioni palermitane nella modernità e nella poesia assoluta, è uno degli ultimi baluardi della tradizione dell’Opera dei Pupi, dal 2008 ufficialmente iscritta tra i Patrimoni orali e immateriali dell’Unesco.
Figlio di un notissimo puparo itinerante siciliano, Giacomo Cuticchio, Mimmo racconta di essere cresciuto tra i pupi e di averli sempre considerati fratelli e sorelle, ognuno con un nome e un cognome. «Sono gli studiosi ad averli chiamati pupi», dice. Così immaginiamo tutta la famiglia Cuticchio parlare con loro, confidare gioie e dolori, caricandoli di quella forza ieratica che da essi traspare ogni volta che si muovono tra le sue mani.
Oggi Di Palma racconta agli studenti che «Mimmo è diventato suo padre», ma che non è sempre stato così.
Come si legge infatti dalle pagine del sito ufficiale della compagnia Figli d’arte Cuticchio, già dai suoi primi approcci al mestiere, che intraprese seguendo le orme paterne, Mimmo avvertiva una forte insofferenza per gli stilemi troppo tradizionali dell’Opra. E, come spesso accade per i figli d’arte, fu proprio da questa esigenza di allontanarsi dalle orme paterne che lo spinsero a cercare nuove soluzioni da presentare al pubblico. Rompe dunque la tradizione del padre e la minorità folcloristica del puparo portando le sue marionette verso il cunto e verso l’opera lirica. Strani connubi tra tradizione e contemporaneità, si direbbe, ma assolutamente fecondi, che oggi lo portano in tour in tutto il mondo come racconta con orgoglio: «sono appena tornato da Detroit, siamo andati in scena con le musiche di Stravinsky».
Così, quel corpus narrativo che attinge ai cicli carolingi medievali e, in particolar modo, alle vicende legate alla figura di Orlando, che costituiscono le trame dell’Opera dei Pupi, riesce a parlare a un pubblico contemporaneo e internazionale. Dalle parole del puparo ogni tanto emerge una nota di amarezza e nostalgia, perché gli spettacoli durano «appena» cinquanta minuti, e gli adulti usano dire «che portano i bambini a vedere lo spettacolo», come se ci si dovesse vergognare del teatro di figura.
Al termine Mimmo racconta finalmente l’aneddoto di cui aveva accennato all’inizio, «un fatto vero», e che gli spettatori hanno richiesto insistentemente.
Un altro ricordo di infanzia, che lo riporta nel 1958, ai tempi in cui assisteva il padre, e la sua famiglia viveva nel teatro insieme ai pupi. Di sera, quando ormai tutte le luci erano state spente, le ombre delle creature di legno si animavano sulle pareti, scricchiolando sinistramente in un silenzio che oggi è difficile immaginare. E sebbene la madre rassicurasse i figli, il sospetto che il posto fosse infestato dai fantasmi si insinuava nelle giovani menti.
In questa atmosfera, una notte, qualcuno bussò alla porta «boom boom boom», tuona con il suo vocione Mimmo. Era uno spettatore ubriaco, con le lacrime agli occhi: «non posso dormire, perché Rinaldo è caduto dentro al trabocco (tranello)… e ora il drago se lo mangia!».
Giacomo, il padre e oprante, alla fine fu costretto a far entrare l’uomo, e insieme andarono a liberare il cavaliere dalla botola.
Incontro con Mimmo Cuticchio
Ospite Mimmo Cuticchio Conduzione di Guido Di Palma In collaborazione con Compagnia Mauri-Sturno e CREA – Nuovo Teatro Ateneo Teatro Ateneo: Università di Roma La Sapienza