La lezione di Eugène Ionesco basilica

«Ho mal di denti…»; «Proseguiamo!». Metodo e follia ne La lezione di Eugène Ionesco

Dal 6 al 10 marzo va in scena, presso il Teatro Basilica, La lezione. Appartenente alla tradizione del teatro dell’assurdo, il testo di Eugène Ionesco è un accavallarsi di sensi senza alcun fondamento, che trasportano lo spettatore in un mondo determinato da logiche bizzarre e avvenimenti sconclusionati. Sotto la regia di Antonio Calenda prende forma una narrazione ridondante, dinamica e sorprendente.

C’è del metodo in questa follia?

Ionesco pare non fare altro che sforzarsi di decostruire qualsiasi possibilità di dare un senso a quello che scrive, dalla singola battuta al plot dell’intera opera. La lezione non fa eccezione: contraddice un senso ma poi contraddice anche quel non senso, intraprende solo strade che ha la garanzia di non portare a termine, rinchiude tutto entro cornici che in un istante evaporano tra le dita. Tale insensatezza, assurdità, è talmente irregolare che fa domandarsi quando sia il frutto di un programma e quanto sia un saltare di palo in frasca senza un filo conduttore: ammettere il paradosso come obiettivo implicherebbe, per contrasto, un senso negato: qui no, neanche delle antinomie ci si può fidare.

Un professore impartisce ad una studentessa lezioni – in quest’ordine – di aritmetica, linguistica e filologia, mentre una domestica compare di tanto in tanto per intimare lui di smettere. Nel corso dell’insegnamento – faccia a faccia – gradualmente si passerà da un tono mellifluo carico di apprezzamenti stucchevoli a un esplicito sopruso, fino all’assassinio; tuttavia siamo più vicini ai Looney Tunes che a Pinter, e ben poco di tragico si avverte nell’avvenimento.
«Quanto fa quattro meno tre?» è tra i cavalli di battaglia della prima parte; nella seconda la studentessa, colpita senza alcuna ragione da un mal di denti, si accascia sul tavolo mentre il professore delira sull’etimo della lingua neo-spagnola, che per qualche motivo è identica all’italiano, che è uguale al rumeno, che suona come il francese. Prima dell’atto turpe, il professore chiede incessantemente alla povera di ripetere – in non si sa bene quale lingua visto che tutte si assomigliano – la parola “coltello”, per poi compiere l’omicidio facendo finta di impugnarlo (gli oggetti non sono presenti in scena).
«Le parole vivono per aria, volano… e solo il peso di un senso può farle cadere a terra, nelle orecchie dei sordi»: ecco la frase che tra metalinguaggio e poesia strizza l’occhio allo spettatore, privando Ionesco della limpidezza di chi veramente non vuole dire nulla. Alla fine, il cadavere viene bruciato in un forno crematorio nazista, con tanto di cori, e professore e domestica escono, pronti per accogliere la nuova (o è sempre la stessa?) studentessa.

La recitazione di Nando Paone è precisa e calcolata, segue i ritmi e le fattezze della clownerie ed è improntata alla valorizzazione della battuta. Daniela Giovannetti, la malcapitata alunna, oscilla tra il timore reverenziale e l’esplosione isterica, l’ottusa staticità e lo scatto disordinato, fino a essere stesa definitivamente dal mal di denti. Valeria Almerighi, nelle sue sporadiche apparizioni, porta con sé un viso-maschera carico di suspence e sottintendimenti e, con risoluta severità, partecipa alla follia non meno degli altri due.

Lo spettacolo di Ionesco è divertente e brillante, a tratti opprimente, ripetitivamente ottuso e causticamente insensato. La figura di Antonio Calenda permette, attraverso la corporeità degli attori, di dare vita a un mondo bizzarro privo di regole logiche che tuttavia, in qualche misterioso modo, si tiene in piedi.


La lezione

di Eugène Ionesco
regia di Antonio Calenda,
con Nando Paone, Daniela Giovannetti, Valeria Almerighi

2 commenti

  1. Ma la presunzione di ergersi a critico, senza aver compreso lo spettacolo?
    Non è questione di opinioni ma di mancanza di capacità nel “vedere” una rappresentazione teatrale.
    Questa “pseudo recensione” sembra più un esercizio di sciorinatura di vocaboli quando, probabilmente, si sarebbe potuto provare a scrivere in modo più semplice e, soprattutto, centrando gli argomenti.
    Non si invoglierebbe di più ad andare a teatro con la chiarezza?
    Davvero non ha capito perché l’Allieva aveva mal di denti? Eppure il finale è una meravigliasa conclusione che ci chiarisce tutta l’insensatezza della narrazione precedente.

  2. Perché l’Allieva aveva mal di denti?

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