L’origine del mondo. Ritratto di un interno, ritorna in scena, dopo poco più di un decennio dal suo primo debutto – per la prima volta in scena nel 2011 e premio UBU nel 2012 – in una forma più matura, asciutta, sincera. E scrivere di uno degli spettacoli più discussi e apprezzati della drammaturga e regista Lucia Calamaro è senz’altro un esercizio di (r)esistenza. Al tempo, alla Storia, alla drammaturgia. Perché di esistenza si racconta – e si è raccontato – con tutte le difficoltà che un percorso di vita comporta. E seppur di tempo dalla prima ne sia passato, l’opera della Calamaro sembra aver attutito bene ai cambiamenti che inevitabilmente attraversano vita e teatro: in questo spettacolo cambia il contorno ma l’interno è – ancora – al sicuro. Ritornando, nel 2024, attuale più che mai nella cornice del Teatro Argentina.
Si potrebbe definire quest’opera come una genealogia al femminile: tre universi che si scontrano nell’incontro, quello di Lucia, Concita e Alice che interpretano rispettivamente nonna, madre e figlia e i cui personaggi in scena hanno gli stessi nomi delle attrici – forse per una maggiore aderenza con il dramma familiare inscenato – e che di atto in atto svelano parti di sé in questa cornice domestica declinata in modo differente per ogni personaggio: ingombrante (per Lucia) confortevole (per Concita) e familiare (per Alice).
Nello spettacolo L’origine del mondo, passato e presente, in ogni singolo atto, sembrano confluire. Un inizio che sembra non finire mai, che pone quesiti e indaga – ancora più a fondo dell’interno, inteso come intimo – con delicatezza, sagacia e attenzione. Al centro della riflessione vi sono le relazioni: con il sé, gli altri, gli oggetti, il cosmo. Ogni personaggio non è soltanto la storia che veste ma, per come affronta la vita, anche un messaggio universale di umanità.
Silenzio. Buio. Un personaggio in penombra.
Inizia così il primo atto dei tre atti. Non si riesce a scorgere subito cosa e chi c’è in scena ma le parole, appena pronunciate dal personaggio, riecheggiano potenti nella sala, completamente catturata da quell’attesa. Ogni parola è, come manifesto artistico di Lucia Calamaro, calibrata per condurre un viaggio.
D’improvviso la luce: l’unica e primaria fonte è quella di un interno, proveniente dal frigorifero al centro del palco. Una luce folgorante, bianca, candida che attraversa tutta la sala e sembra cristallizzare quel momento lì. E da qui notiamo una scenografia essenziale, pulita che capiremo poi essere funzionale a rappresentare la casa come rifugio e gabbia per chi ci abita come Concita, per chi è di passaggio come per Lucia o per chi ci ha vissuto e poi fa ritorno, come Alice.
Per tutto lo spettacolo le luci che accompagnano le attrici offrono un’alternanza di colori caldi e freddi – dal bianco candido all’arancio tenue, dal giallo canarino all’azzurro pastello, in relazione alle emozioni che si vogliono mettere in evidenza.
La madre – nonché personaggio primario che figura in tutti e tre gli atti – inaugura la pièce interpretata da una notevole Concita De Gregorio alla sua prima esperienza attoriale, che esterna attraverso un evidente rapporto particolare con il cibo, la sua richiesta di comprensione. Entriamo nel suo mondo a passo svelto, in mezzo ai vari nomi di alimenti elencati, che in una notte insonne decide di richiamare al mondo, per dare loro forma e sostanza. Ma gli oggetti non soffrono, dirà qualche battuta dopo la figlia Alice – interpretata da Alice Redini ormai fedele presenzanel teatro della Calamaro. Eppure, per Concita sono gli unici compagni a cui sente di poter parlare liberamente di quello che sente dentro.
Il rapporto con la figlia è un ostacolo: la sofferenza di questa madre – schiava del male del secolo, la depressione – intacca ogni singolo rapporto di cui è circondata, un mostro invisibile che non riesce ad uscire nemmeno nel percorso psicologico che Concita sta affrontando e che inaugura, invece, il terzo atto. La figlia, ingenuamente chiusa nella sua bolla, cerca rifugio nelle parole trovate nei dizionari per poter raggiungere la madre distratta e assente, barcamenandosi tra l’essere il suo alter-ego e la sua analista.
«Uno fa fatica però vive, trova strategie, si inventa»
Un eccedente infantilismo che declina la figura complessa della figlia, che vedremo crescere e affrontare, negli altri due atti, diverse fasi della vita, mantenendo sempre il velo di Maya nel momento in cui serve affrontare la realtà.
La madre invece, nonché nonna di Alice – interpretata da una magistrale Lucia Mascino – è forse il personaggio più dirompente e critico, che si oppone alla sfuggente maniacalità della madre, irrompendo in una quotidianità troppo abitudinaria, per rompere (o aggiustare) gli equilibri. È un rapporto crudo e feroce, quello di Lucia con la figlia Concita, un eterno flusso di coscienza che non soltanto le coscienze le smuove, ma le turba, le anima. Quasi le tormenta. Come tormentato è questo rapporto madre-figlia. Un labirinto di parole che accusano, assolvono, etichettano, senza risoluzione. Lucia è una madre che giudica e condanna, senza pietas. Forse perché fondo non si cerca che sé stessi e sia Lucia che Concita, lo sanno bene.
E dal frigorifero che è l’unica possibilità di iniziare un percorso di consapevolezza della propria condizione, gli elettrodomestici che attraversano questo racconto si duplicano: la lavatrice, oggetto protagonista del secondo atto, che continua il suo lavaggio all’infinito, come la mente di Concita risucchiata in un vortice di pensieri che le impediscono di vivere al di fuori della casa. Una lavatrice che diventa anche il quadro narrativo di un rapporto che non cambia e resta tale, quello di Concita e della figlia Alice, un rapporto in cui non c’è comunicazione. Poi, un tavolo della cucina, gli armadi, le piante, ogni cosa è la manifestazione di un bisogno di distrazione.
Nell’ultimo e terzo atto, Alice Redini – che veste i panni della figlia, sdoppia la sua identità per accompagnare, tragicomicamente, la madre-paziente verso un tentativo di (impossibile) risoluzione: non sembra esserci consolazione per questa pena e le sedute psicoanalitiche non chiariscono le risposte ma alimentano le domane. Deve esserci sempre un perché al dolore?
Nella maschera che Alice impersonifica quando diventa l’analistanon c’è conforto. Anche nelle sedute un muro invalicabile di parole contiene tutta la sofferenza di chi vuole darsi e non ci riesce. L’incapacità di reagire alla richiesta della donna rende questa situazione assurda e paradossale, tutto proseguendo sotto gli occhi dello spettatore attratto da questi giochi di parole tra la psicoterapeuta e Concita, in un loop temporale che non lascia spazio a fraintendimenti: il tratto ironico e pungente della penna della Calamaro, fuoriesce senz’altro in quest’ultimo atto, che porta quasi all’esasperazione le follie ordinarie di Concita che si scontrano con le domande frivole dell’analista.
Circolarmente, si ritorna poi dove tutto è iniziato: madre e figlia – Concita e Alice, si trovano a chiacchierare, in un’altra parte della casa ancora inesplorata, un lavello in cui la madre lava i piatti indaffarata e concentrata, quasi da non riuscire a star dietro alla figlia che è ritornata a casa dopo del tempo lontana. Un’assenza che la madre sembra non aver percepito, ma notiamo che l’animo di Concita è più sereno, meno ossessivo. Difatti, per la prima volta, madre e figlia riescono a comunicare. Ma è una comunicazione illusoria che nasconde vuoti impossibili da colmare.
«Quanto ti serve?» è l’ultima battuta dello spettacolo, una domanda che chiarisce, quasi con leggerezza e sarcasmo, la natura del rapporto.
Lunghi e scroscianti applausi per le tre – splendide – donne e personaggi che la penna di Lucia Calamaro ha fatto (ri)nascere in scena.
L’origine del mondo. Ritratto di un interno
scritto e diretto da Lucia Calamaro
con Concita De Gregorio, Lucia Mascino, Alice Redini
scene e costumi Lucia Calamaro
aiuto regia Jacopo Panizza
assistente scene Laura Giannisi
disegno luci Lucia Calamaro
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale