Pessoa – Since I’ve been me \ Foto Lucie Jansch

La poesia di Pessoa nell’onirica visione wilsoniana

Sospeso in una dimensione spazio-temporale altra, un uomo – o forse una donna – è seduto sul palco, in attesa. Sorride, fa espressioni di sorpresa, utilizza il gesto e il labiale, come a comunicare con un invisibile interlocutore. Con questa immagine viene accolto il pubblico del Teatro della Pergola di Firenze in occasione dello spettacolo Pessoa – Since I’ve been me, del regista statunitense Bob Wilson.

Attraverso la creazione di ambientazioni oniriche, Wilson ha restituito alla poesia la sua potenza evocativa. Una poesia che si materializza nella scena, si incarna nei corpi e nelle voci dei performer, la cui recitazione è caratterizzata da una spiccata gestualità corporea, tendente a una rappresentazione mimica. L’espressività corporea degli attori è accompagnata dall’utilizzo della parola: stralci di poesie di Fernando Pessoa vengono ripetuti più e più volte dallo stesso interprete in scena, o da interpreti diversi in altre lingue (italiano, francese, inglese e portoghese). Lo spettacolo è suddiviso in quadri, ognuno con una scenografia diversa.

Nel primo quadro, predomina il bianco dello sfondo, mentre i riflettori formano cerchi luminosi intorno ai sette attori disposti in fila orizzontalmente. Il vestiario elegante, giacca e pantaloni neri che richiamano un contesto cabarettistico. Nel quadro successivo, la sagoma di una piccola barchetta proiettata sullo sfondo, mentre una donna pronuncia frammenti poetici che parlano di sogni. Parlano di come l’uomo non è altro che una mosca che sbatte al vetro della finestra, cieca alla luce che al di là si irradia: il poeta è colui che tenta di attraversare quella luce per attingere alla verità delle cose. In questo quadro, il palco comincia a essere popolato da strane creature, animali fantastici che camminano con una lenta andatura.

A seguire, un’ambientazione paesaggistica dai toni cupi, con una vegetazione composta prevalentemente da cipressi: qui le poesie raccontano di Dio, della Natura, del tempo, della morte. Ma il clima cambia ancora: gli attori sono ora disposti in fila, ognuno siede al proprio tavolo. Qui la tematica della frammentazione dell’io e della perdita di un’identità definita è evocata dalla rappresentazione scenografica: le sedie, le tovaglie e i tavoli cominciano e disperdersi nello spazio, trascinati verso l’alto da fili invisibili, l’atmosfera si carica di tre colori dominanti: rosso, nero e bianco.

L’idea della perdizione è messa in evidenza dal ritorno della metafora navale verso il finale: una barca di grandi dimensioni domina il palco. A supportare la fruizione della poesia, uno schermo in cui viene proiettato in italiano il testo scritto. La ripetizione è la cifra di uno spettacolo in cui emerge l’ossessione per la domanda esistenziale: chi sono io? Chi è – se c’è – Dio? Chi fui dal momento che ciò che ero non sono più? Queste – in sintesi – alcune delle questioni che le poesie sollevano. La tematica della ricerca di un senso della realtà si lega alla questione della temporalità.

La dimensione temporale è quella del sogno: frammenti di poesie ripetuti in un’ambientazione astratta, fantastica, immaginifica. Un teatro d’immagine, evocativo, suggestivo, a cui la poesia – proprio per la sua forza icastica – bene si presta. A contribuire alla creazione di queste atmosfere visionarie, l’uso delle luci: la luce invade lo spazio, permea ora di bianco, ora di nero o di rosso il palco. Quella che offre Bob Wilson è un’esperienza sinestetica: oltre alla vista, viene stimolato il senso dell’udito con alcuni rumori assordanti, quali un vetro che va in frantumi, un tuono, uno sparo. Rumori che destabilizzano lo spettatore, risvegliandolo dall’anestetizzazione. La disgregazione del senso nell’irrazionalità del sogno culmina nell’ammonizione finale dell’attore che all’inizio aveva accolto il pubblico: invita a non cercare un significato, perché non c’è. Lo spettacolo si chiude infatti con gli attori che smettono di porsi domande e iniziano a ballare, come metafora del naufragare nel mare del non sapere.


Pessoa – Since I’ve been me

Regia, scene e luci Robert Wilson
Testi Fernando Pessoa
Drammaturgia Darryl Pinckney
Costumi Jacques Reynaud
Con Maria de Medeiros, Aline Belibi, Rodrigo Ferreira, Klaus Martini, Sofia Menci, Gianfranco Poddighe, Janaína Suaudeau
Co-regia Charles Chemin
Collaboratrice alla scenografia Annick Lavallée-Benny
Collaboratore alle luci Marcello Lumaca
Sound design e consulente musicale Nick Sagar
Trucco Véronique Pfluger
Stage manager Thaiz Bozano
Direttore tecnico Enrico Maso
Collaboratrice ai costumi Flavia Ruggeri
Consulente letterario Bernardo Haumont
Assistente personale di Robert Wilson Liam Krumstroh
Commissionato e prodotto da Teatro della Pergola - Firenze, Théâtre de la Ville - Parigi
Coprodotto da Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Bolzano, São Luiz Teatro Municipal de Lisboa, Festival d’Automne à Paris
In collaborazione con Les Théâtres de la Ville de Luxembourg
Foto di scena Lucie Jansch e Filippo Manzini

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