incontro con Alessandro Serra

PER UNA PEDAGOGIA TEATRALE SOSTENIBILE

In una lunga e articolata intervista di Alessia de Antoniis ad Alessandro Serra il regista declina un vero e proprio manifesto pedagogico alla vigilia del primo atelier del progetto “Sulla maestria” dedicato al tema “La morte e il comico”. Insieme a Vladimir Olshanski e Bruno Leone, un clown e un guarratellista si cercano le vie per riallacciare i fili del tempo, ritrovare gli archetipi del comico, quelle forme infinitamente mutevoli ma sempre presenti e sempre pronte a manifestarsi e trasformarsi. Un esperimento pedagogico dove non si tratta di trasmettere dei protocolli ma di porre domande che possono avere risposta solo dalla pratica. 
Il testo è corredato dalle foto di Alessandro Serra dell’ultimo spettacolo della Compagnia Teatropersona Tragudia. Il canto di Edipo.

Un’intervista di Alessia De Antoniis ad Alessandro Serra

Si terrà dal 26 luglio al 2 agosto, la prima annualità del progetto triennale diretto da Alessandro Serra,
“SULLA MAESTRIA” – tre atelier residenziali nel triennio 2024-2026, all’interno dell’intervento di
rigenerazione culturale, sociale, economica “Trevinano Ri-wind”, finanziato dal PNRR.
La prima edizione dal titolo “IL COMICO E LA MORTE” si terrà presso la sala polivalente di Trevinano,
piccolo borgo afferente al comune di Acquapendente (VT). Gli anni successivi il lavoro sarà dedicato
alla voce e alla scrittura di Scena.
Il lavoro sarà a cura della Compagnia Teatropersona, con la curatela scientifica del prof. Guido Di
Palma
del Dipartimento SARAS, Sapienza Università di Roma. Referente organizzativa è Noemi
Massari
.
Insieme al regista Alessandro Serra, i partecipanti lavoreranno con Vladimir Olshansky, Bruno Leone,
Guido Di Palma e Alessandro Toppi.

Del progetto ne abbiamo parlato con Alessandro Serra.

La prima edizione dal titolo “IL COMICO E LA MORTE”. Come lavorerà per una settimana con gli allievi?

A me spetterà il compito di condurre le danze e dirigere l’orchestra ma di fatto i maestri sono Bruno Leone e Vladimir Olshansky, entrambi eredi di due potenti tradizioni: il teatro popolare delle guarattelle e la grande scuola russa di clown. La differenza sostanziale credo risieda nel fatto che il russo poggia sul metodo mentre il napoletano è convinto di no.

Per non eludere la domanda posso accennare a un piccolo esperimento che spero di riuscire a compiere. Ho chiesto a Bruno di comporre uno scenario a partire dai canovacci ereditati oralmente. Si tratta come è noto di situazioni, battute e lazzi perfettamente intercambiabili e suscettibili di metamorfosi improvvise a contatto col pubblico. Abbiamo cercato di forzare la mano e di trascrivere l’intrascrivibile: un copione teatrale. Che di fatto, nella perfetta definizione di Mario Apollonio, diviene un libretto di un fatto drammaturgico, nulla più. Se ci pensi è questo che sono i grandi testi: copioni fermi a quel punto lì, nella maggior parte dei casi scritti non per la stampa ma per fornire agli attori gli strumenti di un’imminente rappresentazione.

Bruno ci consegnerà dunque un copione in un napoletano semplificato (come del resto semplificate e normalizzate furono le opere di Shakespeare nella lingua) e noi lo tratteremo come fosse una commedia di Aristofane o Shakespeare. Stavo per dire Eduardo, ma Eduardo non vale perché lì purtroppo ci sono i video a rovinare tutto. Ma questa è un’altra, delicata, faccenda.

Dunque le danze le aprirò io, coinvolgendo gli attori in una simulazione, scegliendo magari una scena in particolare, non importa quale. E vediamo cosa può fare un regista insieme a un gruppo di bravi attori in poche ore a contatto con un testo della tradizione. Dopodiché la conduzione passa a Vladimir, il quale lavorerà sulla stessa scena ma con il metodo russo. Qui la situazione si complica perché Vladimir, che a differenza mia possiede un metodo e una struttura, dovrà forzare la situazione (chissà come!) e uscire da sé, perché non potrà insegnare nulla: dovrà subito provare a fare con chi sa fare ma non sa fare in quel determinato modo li.

La terza fase del processo ci riporta all’attore-manovratore-autore che resusciterà il morto orale e ci mostrerà gli scenari con tanto di baracca e burattini. Sarebbe come lavorare sul Don Giovanni di Moliere e a un certo punto, durante le prove, avere l’apparizione di Moliere che si rotola dalle risate ci fa:

mais que faites-vous?

Monsieur Moliere, stiamo facendo il nostro teatro a partire dal vostro. Come voi avete fatto il vostro a partire da quello degli altri.

Quindi abbiamo una tradizione, un metodo e un autore-regista che, con armi spuntate, cercherà di dar vita a una cosa morta: il testo.

L’intento non è trasmettere un metodo ma interrogarsi sul mestiere, giocando, improvvisando, ponendoci di fronte a piccole simulazioni di atti creativi, cercando di coglierne l’essenza e la ripetibilità in altri ambiti e ambienti simulati. Per intenderci: possiamo lavorare su Pulcinella che beffa il boia ed espiantare un dispositivo comico antico e vitale da poter innestare in un dialogo fra re Lear e il suo matto. Ci sono forme che ritroviamo ovunque ma accecati dalla mania del nuovo non ce ne rendiamo conto. In fondo quando Ollio guarda in camera fa esattamente quello che faceva Aristofane con la parabasi e Shakespeare con gli a parte: lascia la maschera del personaggio e chiama in causa il pubblico. Si tratta degli archetipi della comicità e allora è importante porsi delle domande. Quali sono? Come si possono realizzare? Perché funzionano? Siamo sicuri che funzionano?

C’è solo un modo per capirlo: il pubblico popolare.

Per questo dopo aver visto ed esperito Pulcinella in legno e ossa, si rimetterà in gioco il materiale emerso nei giorni precedenti e si cercherà di comporre un piccolo frammento da poter gettare in pasto al pubblico della festa della Rosticciana, che è lì non per vedere la prima al Piccolo di Milano ma per mangiare gnocchi e carne alla brace. Il pubblico insomma.

L’intento non è trasmettere un metodo ma interrogarsi sul mestiere, giocando, improvvisando, ponendoci di fronte a piccole simulazioni di atti creativi, cercando di coglierne l’essenza e la ripetibilità in altri ambiti e ambienti simulati. Per intenderci: possiamo lavorare su Pulcinella che beffa il boia ed espiantare un dispositivo comico antico e vitale da poter innestare in un dialogo fra re Lear e il suo matto.

Di cosa pensa ci sia urgente bisogno nelle scuole di recitazione?

In Italia ogni anno si diplomano centinaia di attori con la triste constatazione che, fra di loro, pochissimi lavoreranno. L’altra anomalia è la mancanza di un codice. La così detta buona norma sognata da Silvio D’amico non c’è più. Ogni scuola propone una sequenza di moduli didattici il più delle volte senza alcuna relazione organica tra loro. C’è chi cura di più la recitazione, chi il corpo, chi la dizione, chi la commedia dell’arte e così via. Per intenderci all’epoca di Orazio Costa c’era un’accademia e un metodo. Gli attori possedevano un linguaggio comune.

L’alternativa alle accademie è l’illusione di potersi formare saltando da un laboratorio all’altro. Leggendo i curricula di giovani attori o attrici si resta impressionati dal numero di maestri che hanno conosciuto, ancor più impressionante il fatto che vi siano pochissime ricorrenze degli stessi nomi.

C’è poi una terza via che per me è la maestra: la formazione all’interno di una compagnia teatrale. Non mi riferisco al fenomeno dei teatri di base o di gruppo (che pure hanno avuto un enorme valore) ma a un insieme di persone che decidono di fare teatro. In questo caso è proprio grazie alla necessità di dover sbarcare il lunario che la formazione diventa un’emergenza, quasi un’ossessione.

Quando Totò entrò nella compagnia di Mimì Maggio (padre della grande Pupella) gli era concesso l’ingresso in scena solo a fine spettacolo, per esibirsi in un numero di “capriole a pagamento”. Meglio le faceva e più lo pagavano!

Non c’è tempo da perdere, occorre imparare facendo, perché da quel sapere dipende la nostra sopravvivenza. Dover vivere del proprio mestiere diviene il più potente dei carburanti della creatività. Doversi confrontare con il pubblico vero, per davvero. Dover dipendere dall’incasso. Se fallisci non mangi. Così facendo si attiva l’immaginazione e non si ha tempo per riflettere, si impara facendo, si impara sbagliando e se non funziona meglio lasciar perdere. Diceva Eduardo:

Prova a entrare in scena e a interessare il pubblico al personaggio che devi interpretare, senza parlare. Se dopo un minuto dalla sala parte una voce che ti chiede: “Mbè?”, paga la penale al capocomico e cambia mestiere.

Ecco ad esempio questo semplice esercizio non ha alcun senso in una scuola o in un laboratorio. Funziona solo se lo fai davvero di fronte a un pubblico. Solo se rischi davvero. Se rischi di non mangiare o se rischi di cadere e morire sfracellato in terra come un funambolo. Stanislavskij userà quel rischio e quella presenza come esempio supremo per i suoi attori

Il funambolo non fa niente a caso. Non lascia niente al caso. Sa benissimo che basta che scivoli per rompersi l’osso del collo

Se non c’è rischio non c’è teatro.

All’interno della compagnia ci si forma imitando, rubando, si sta seduti dietro le quinte e si osserva chi sa fare il mestiere per poi imitarlo nella propria stanza segreta. Si imparano a memoria tutte le battute nella speranza che si debba entrare a sostituire qualcuno. E quel qualcuno lo sa che gli stai rubando il mestiere, ma sa anche che solo grazie a questo furto – che è pedagogia – la sua voce sopravvive, il mestiere sopravvive. Questa è la tradizione.

 Questa terza via, la maestra, è oggi una strada che sembra senza uscita perché qualcuno ha reso impossibile seguirla sbarrandola ai giovani.

Per una giovane compagnia non c’è più la piazza, non c’è il vero mercato, i teatri sono preclusi. E dunque non essendoci il pubblico, non c’è la scuola. E così agonizzano le compagnie e la cultura della compagnia che per oltre sei secoli è stata la struttura portante del teatro italiano.

I migliori maestri sono gli attori e un attore per esistere ha bisogno del palco. Se un attore decide di dedicare la sua vita alla pedagogia semplicemente non è un attore. Potrà anche esser un ottimo pedagogo, non c’è dubbio, ma l’essenza di questa arte si acquisisce solo in quello spazio sacro, a contatto con i compagni, insieme, di fronte al pubblico.

La verità è che esistono moltissimi individui che trascorrono un’intera esistenza a cercare di fare l’attore. Ma scrivere progetti, vincere bandi, fare training, insegnare recitazione e andare in scena una ventina di volte l’anno (se ti dice bene) non è fare l’attore. Si dà il caso però che per alcuni questa sia anche l’unica via percorribile. Qui nasce il doloroso paradosso. Perché anche io e i miei compagni di Teatropersona abbiamo sacrificato quindici anni della nostra vita per inseguire quel sogno. Nel mio caso fu una scelta: avevo conosciuto Kantor e mi ero subito persuaso che l’accademia non fosse il luogo preposto per procurarmi il viatico necessario a quel viaggio tra i morti. Erano gli anni in cui in Italia avevano già deliberato la morte delle compagnie.

Le scuole poi sono spesso connesse ai grandi teatri e il fatto che gli attori e i registi diplomati abbiamo delle possibilità che altri non hanno è un fatto. Chi viene dalla compagnia in Italia non ha nessuna possibilità. Ripeto, nessuna. E quelle che sembrano vetrine, che termine volgare, non sono che mere illusioni. Ribadisco: la compagnia è l’unica scuola. Se ci fosse una piazza, un mercato vero con un pubblico vero, se potessimo scendere in strada e mostrare la nostra arte e poi sfoderare il cappello e con pungente dignità chiedere la nostra paga, ebbene stai certa che il sistema teatrale si ribalterebbe.

Dal CS: SULLA MAESTRIA nasce dall’esigenza di rivendicare l’importanza della pedagogia teatrale e dello studio inteso come confronto di pratiche, punti di vista e messa in discussione degli stessi.

Una giovanissima attrice, nota per una serie su una piattaforma, mi diceva di non aver mai frequentato un’accademia perché l’avrebbe privata della sua spontaneità. Ha fatto dei corsi con alcuni/e coach. Possiamo mandare in pensione Mejerchol’d e riporre in soffitta i testi di Grotowski?

Se quella persona fosse davvero spontanea probabilmente non starebbe su una piattaforma ma su un palcoscenico. Perché il teatro è l’unico luogo al mondo in cui si può smettere di recitare e iniziare a esporsi. Quella che oggi chiamano spontaneità non è altro che un’imitazione della spontaneità, una finzione che rischia di divenire patologica. Visto che citi Grotowski, lui l’ha spiegato assai bene. 

Si può raggiungere la spontaneità reale, non imitata, solo sulla base di una precisa partitura attoriale. La spontaneità indisciplinata in fondo produce come effetto una sorta di caos biologico, reazioni amorfe e casuali. L’urlo, i movimenti violenti, il dimenarsi simile alla convulsione non sono una reazione spontanea; sono solo una buffonata, da un lato, e il tentativo di “pompare” la spontaneità, di ottenerla a forza, dall’altro. Non c’è autenticità. Tutto questo è “pesante”, la spontaneità autentica è “leggera” libera.

Ci sono dei coach bravissimi ad addestrare i giovani che vogliono farcela. Se la vocazione è Netflix allora la strada giusta è proprio quella dei coach, non dei maestri.
In quanto ai libri, se non ci fossero stati quei libri io personalmente non ce l’avrei fatta a imparare un mestiere che nessuno poteva insegnarmi. Nel mio caso è una faccenda di poco conto ma nel caso di Grotowski, se non avesse letto i libri di Stanislavskij, non avremmo avuto il Principe Costante, e Ryszard Cieślak non avrebbe mai raggiunto quegli abissi di trascendenza.

Forse sì, hai ragione, in un’epoca in cui con un clic si può leggere e possedere qualsiasi cosa, quei libri è bene riporli in soffitta o quantomeno nasconderli, seppellirli direi, piuttosto che esporli alla luce ustionante della dimenticanza e del fraintendimento.

Nello sciamanesimo femminile coreano, quando una sciamana non trova una degna allieva a cui trasmettere i suoi segreti, prima di morire nasconde i suoi attrezzi liturgici seppellendoli in una caverna. Poco dopo, da qualche parte, una giovane bambina si sentirà misteriosamente spinta a scavare in quella caverna e a disseppellire e adottare il tridente, la sciabola e gli altri strumenti magici con i quali ricomincerà a far risuonare il rito dell’origine. 

Il nostro mandato oggi è disseppellire quegli strumenti nascosti nei libri, nei bauli dei comici e nelle pieghe delle maestranze.

Non essendo ancora giunto il tempo di andarli nuovamente a nascondere. Quando verrà quel tempo li si nasconderà nuovamente per custodirli, perché non si sciupino. È un paradosso me ne rendo conto: affidare ai libri la trasmissione di un’arte che fa dell’effimero la sua peculiarità. Ma quando si interrompe la tradizione o quando gli allievi confondono l’essenza con lo stile, allora non restano che i libri.

Bisogna saperli scrivere però i libri, perché essi stessi sono una forma d’arte. Scrivere l’essenziale tralasciando il transitorio, cioè andare oltre il contemporaneo, oltre la storia, oltre sé stessi. Solo così il libro può divenire lo strumento più prezioso per la salvaguardia dell’essenza della maestria.

E poi sì, occorre imparare a leggerli, a prenderli sul serio e a criticarli, a metterli alla prova sul campo.

Gli strumenti che emergono dai libri (etica, tecnica, forma, giochi di prestigio), sono al contempo gli strumenti del mestiere e il mestiere stesso. Questo misterioso approccio non deve trarre in inganno perché una volta presi in mano ci si rende immediatamente conto della loro concretezza e semplicità. Dirò di più, rispetto a quei due maestri che hai citato e che personalmente ho molto amato e studiato, non essendo loro eredi di una tradizione (come fu Zeami ad esempio) sarebbe prudente distinguere la sapienza dallo stile. Una volta afferrati gli strumenti, anche in questo caso rubati da una grotta, spetterà a noi inventare un nuovo teatro.

L’altro grande paradosso è che il libro è in realtà l’unico strumento che ci può salvare dall’epigonismo. Nicola Chiaromonte l’ha scritto in maniera brutale ma inequivocabile:


Non è colpa di Grotowski se i grotowskiani stanno diventando una peste; egli potrebbe dire, come disse Marx a proposito dei sui scimmiottatori: ‘Je ne suis pas marxiste’

Et donc: je ne suis pas Grotowskienne, ni Mejercholdienne!

Però bisogna leggerli davvero, con un totale atto di fede.

Leggendo i suoi libri, Grotowski stesso appare assai poco Grotowskiano. Prendiamo il training ad esempio, che in qualche modo è un mito che rimanda sempre a lui. Grotowski dice chiaramente che non bisogna allenarsi, non bisogna fare il training così, tanto perché bisogna fare il training. Scrive chiaramente che il training serve per liberare l’attore, ma se un attore è già libero ed è in grado di donarsi completamente al pubblico, non deve praticare nessun allenamento. Soprattutto perché la serie di abilità che si apprendono nelle scuole o anche nelle compagnie che praticano il training spesso diventano una corazza da esporre, con il risultato di allontanare sempre più l’incontro con lo spettatore. Uno può anche uscire dal teatro ed esclamare: che bravo! Che voce! Che interpretazione sublime! Eppure non aver avuto nessuno contatto profondo con quell’attore.  

Nel training, dice Grotowski, affiora spesso un auto compiacimento che non fa che rimandare l’atto. Rimandare l’atto significa rimandare il momento creativo e dunque precludere l’incontro con l’altro. L’insegnamento è cristallino:

bisogna mettere l’attore a confronto con il seme creativo.

Per questo il training migliore è quello che si crea nel corso del processo creativo di uno spettacolo. È dall’arte che si genera la tecnica per innalzare l’artista all’atto creativo.

Ma allora cosa si deve fare?

Si possono fare molte cose, ad esempio chiudersi in una sala e creare, insegnare a sé stessi ciò che non si conosce e una volta creato qualcosa, cercare al più presto di incontrare il pubblico perché è lì che inizia l’apprendistato.

Nel nostro caso parliamo di Atelier perché è una parola che rimanda alla bottega dell’artigiano, quello che cerchiamo di fare è: simulare processi creativi attraverso lo studio di principi ben delineati. Mettersi sempre in connessione con il seme creativo, già a partire dal riscaldamento.

Parlare di pedagogia teatrale significa che la recitazione si impara sulle tavole del palcoscenico? Teatro e cinema sono tanto lontani?

Dire che la recitazione si impara sulla scena e soprattutto davanti al pubblico non è un’opinione, è un fatto. I bambini si esibiscono e vogliono il loro pubblico vessando genitori, nonni, parenti, affinché assistano alle loro recite. Da adulti non si smette di volerlo fare e più sono gli spettatori, meglio è. Umberto Orsini ha intitolato il suo libro Sold out, alcuni credono sia una parola volgare. Ma lo dice solo chi non ha mai avuto un vero sold out. Intendo tre settimane in un teatro da 600 posti tutto esaurito.

Mentre rispondo a queste domande mi trovo a Epidauro, ieri ho assistito al debutto dell’Orestea diretta da Theodoros Terzopoulos. Epidauro è uno dei teatri più antichi e grandi del mondo e ieri c’erano 10.000 spettatori. E il biglietto costa 50 euro. Hai idea di che cifra di incasso parliamo! Sono tanti soldi è vero, ma in questo caso è pura energia. Pensa a quegli attori prima di andare in scena di fronte a 10.000 persone che devono sedurre e incantare usando solo i propri corpi e la propria voce, senza radiomicrofoni. E sai dove hanno imparato? In una compagnia: Attis Theater. Lo spettacolo stava per iniziare, ero circondato dal brusio di 9.999 persone, io ero solo quindi non parlavo. Entra un attore, raggiunge il centro della scena e si ferma. Guarda fisso davanti a sé, con un solo sguardo scruta ogni singolo spettatore. In pochi istanti il brusio si smorza. E si fa silenzio. Diecimila persone in silenzio, riesci a immaginarlo? In un teatro costruito oltre duemila anni fa, di notte, rapiti dallo sguardo di un attore immobile sulle tavole di un palcoscenico.

In silenzio.  

Ecco pronta la risposta alla sfida zen lanciata da Eduardo: 10.000 persone rapite dallo sguardo di un attore immobile.

Di certo Terzopoulos non gli avrà fatto pagare la penale e lui non avrà cambiato mestiere.

Rispetto alla seconda domanda, se per teatro intendi delle persone che si vestono da persone e che imitano altre persone che, munite di radiomicrofono, sussurrano a altre persone un testo allora si, teatro e cinema sono la stessa cosa. Cambia poco. Se invece ti riferisci al teatro come rito ancestrale che si ripete, popolato da figure, spettri, eroi che cantano la parola e danzano l’immobilità, allora cinema e teatro sono due cose completamente diverse.

Al cinema l’attore riproduce la recita del quotidiano. Occorre uno speciale talento certo: il talento di poter giocare magistralmente con qualcosa che in realtà tutti esperiscono quotidianamente: la finzione dei sentimenti. In teatro invece non si dovrebbe imitare il reale ma incarnare l’ideale, elevandosi fino alla sorgente da cui la natura scaturisce.

La recitazione teatrale è spendibile al cinema. E l’inverso? Molti attori nati con cinema e tv riempiono alcuni teatri. Hanno successo con un pubblico che è abituato allo schermo?

L’inverso è un po’ più complicato. In realtà oggi è una via perfettamente praticabile poiché il teatro di prosa è per lo più un rifacimento dal vivo di situazioni cinematografiche o televisive. Ci si muove come al cinema, si parla come al cinema, i dialoghi sono quelli del cinema, con tanto di esposizione falsata di falsi sentimenti. Tutto ciò riscuote un certo successo consolatorio poiché gli spettatori in qualche modo si confortano nel vedere in scena la farsa del quotidiano. Il teatro invece non deve mai essere consolatorio, il teatro deve porgere lo specchio e metterci di fronte al nostro abisso.

Di fatto però oggi chiunque può andare in scena così come chiunque può scrivere un libro.

Quando Anna Magnani tornò al teatro dopo una vita trascorsa davanti alla cinepresa era terrorizzata e chiamò Eduardo chiedendogli aiuto. Temeva che la sua voce non si sentisse. Perché quello strumento non lo aveva più allenato. E stiamo parlando non di una attrice qualunque ma di una forza della natura.

Io sono abituata al microfono, Eduardo Vienimi a sentire. Era la Medea con la regia di Zeffirelli. Eduardo andò e molti anni dopo disse in un’intervista:

Non aveva bisogno nemmeno della voce! Che te ne importa della voce! Tu parli con le mani!

E a proposito di Eduardo, dopo il successo di Matrimonio all’italiana Eduardo propose a Mastroianni e Sofia Loren di fare Filomena Marturano a Broadway.

Glielo dici tu a Sofia? Racconta Mastroianni. Perbacco glielo dico sì.

Eduardo che avalla la tua presenza ma ti rendi conto?

Sofia Loren Rifiutò.

Aveva paura del teatro racconterà Mastroianni.

Anche a Catherine Deneuve proposi di fare del teatro…

Ma chi è nato dal cinema, eh! Teme il teatro!

Diciamo che oggi non c’è più nulla da temere. Ci sono i microfoni e una recitazione nel migliore dei casi cinematografica, nel peggiore televisiva. Ma se Anna Magnani aveva paura che la sua voce non si sentisse, come possono i giovani attori di oggi salire lassù così, come se nulla fosse.

Il cinema cattura la vita, il teatro scolpisce l’essenza.

Il teatro non è reale, è l’ideale del reale.

Al cinema basta il talento, in teatro il talento non basta: per compiere l’ideale occorre imparare a farlo, perché non è una cosa di natura ma un fatto, passami il temine, sovrannaturale.

Per fortuna esistono i libri e per fortuna esistono le interviste e così oggi possiamo sapere cosa pensavano della recitazione due fra i più grandi attori rispettivamente della storia del cinema e del teatro: Marlon Brando e Ryszard Cieślak.

Tutti recitano, sia il bambino che impara rapidamente come comportarsi per ottenere l’attenzione della madre, sia il marito e la moglie nei rituali quotidiani. Quando non proviamo le emozioni che qualcuno si aspetta da noi e vogliamo compiacerlo, fingiamo quell’emozione.

Diciamo che Brando lo sapeva fare molto bene. È comunque una tecnica che al di là del talento si può perfezionare. Ma il teatro non è la realtà, non è imitazione della vita. In teatro si ha a che fare con i miti e con gli archetipi. Allora che tipo di emozione è quella dell’attore in teatro? Forse è un’emozione ancor più profonda poiché riguarda l’essenza di quelle creature e dell’umanità che ha di fronte, non la recita che chiamiamo socialità.

Incarnare un archetipo, divenire forma formante di un’emozione, essere attraversati da una commozione collettiva, crediamo che possa lasciare indifferente un attore? Certo che prova emozione! Ma una vera, profonda vibrazione, più prossima alla trance che all’immedesimazione. E la caratteristica della trance, ciò che la distingue dalla crisi isterica, è che l’attore è il padrone della forma e del tempo. Perché l’attore è la forma, è lui che scolpisce il tempo. Non è vittima di uno stato psichico, ne è l’autore.

Quando Iago, con un affondo definitivo, inocula il suo veleno a Otello, questi, scrive Shakespeare, falls in a trance.

Hai mai visto in Italia un attore che interpretando Otello sia caduto in trance? Quanti attori sono in grado di compiere un simile prodigio. Non è che fa il matto no, cade in trance. Così come quello non è un fazzoletto ma un talismano nel cui tessuto, dice Otello, c’è una magia poiché esso fu creato da una sibilla che lo realizzò utilizzando la seta fornita da vermi sacri mentre la tinta fu fatta da cuori mummificati di vergini conservati dai sapienti.

Se lo trattiamo come un fazzoletto oggetto di gelosia stiamo facendo una sceneggiata, non Shakespeare. La differenza è tutta lì: se è un fazzoletto facciamo il cinema, se è un talismano facciamo il teatro. La cosa triste è che oggi facciamo il cinema a teatro. Per uscirne fuori dobbiamo ribaltare tutto: mutare l’isteria in trance e trasfigurare l’oggetto in un talismano.
Ah dimenticavo Cieślak…  lui proponeva questa soluzione:

Recitiamo talmente nella vita che per fare teatro basterebbe smettere di recitare.

I grandi maestri del Novecento avevano svecchiato il teatro ampolloso ottocentesco. Dopo il teatro di regia, di ricerca, tutte le avanguardie, cosa resterà invece di questo primo quarto degli anni 2000?

Ci sono artisti e opere straordinarie in giro per il mondo ma non intravedo nulla che possa accostarsi a La classe morta o a Cafè Muller. Però allo scoccare del quarto di secolo c’è stata una pandemia mondiale che ha chiuso in casa l’umanità. Il fatto eclatante è che non appena ci hanno liberati una marea di giovani si è riversata nei teatri, in cerca del contatto umano e del rito. Mi auguro che questo sia lo slancio per tornare ai grandi maestri ma soprattutto ai grandi attori. Il teatro oggi è una necessità collettiva, questi ventiquattro anni diciamo che potrebbero essere stati una riconcorsa. L’otkaz della biomeccanica, il caricamento prima dell’esplosione. Oggi più che mai è il momento per tornare all’incontro fra esseri umani. Proprio nell’epoca del transumanesimo e della disumanizzazione tecnologica, l’essere umano ha bisogno d’umanità.

In quanto al teatro che giustamente definisci ampolloso, e che forse sarà stato pure un po’ noioso, c’è da dire che quei grandi maestri avevano di fronte a loro comunque dei grandi attori. Oggi si chiamerebbero tromboni. Ma il trombone è uno strumento musicale, magari avercelo. E magari saperlo suonare! Quando Gordon Craig formalizzò per iscritto la sua proposta per il teatro del futuro sai a chi la dedicò?

Agli Italiani, in rispetto, con affetto e gratitudine; ai loro vecchi e nuovi attori, da sempre i migliori in Europa.

Secondo Craig gli attori italiani oltre ad avere un talento speciale nella dizione e nella musicalità della parola recitano e non fanno finta ingannandoci, d’essere veri.

Erano dei grandissimi attori non c’è dubbio. Forse facevano un brutto teatro, non importa, di fatto quel loro non far finta d’essere veri è proprio quella maestria che si sta perdendo.

Rispetto ai grandi attori dell’800, le cosiddette avanguardie rivoluzionarie del teatro dimostrarono che forse potevano esserci altre possibilità di usare quello strumento musicale.

La domanda da porre agli attori che criticano, a volte giustamente, i tromboni è: ma tu lo sai fare? C’è l’hai quella tecnica? Avevo meno di trent’anni, vedevo i tromboni italiani e li detestavo, poi ho iniziato a fare il mio teatro e dopo anni ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: ma noi non sappiamo recitare. E abbiamo ricominciato da capo. Acquisendo alcuni strumenti tecnici che ci consentono di osare e così alla soglia dei cinquant’anni ho messo in scena il giardino dei ciliegi senza microfoni. Senza sussurrare e senza urlare! E questo è un fatto di portata tecnica inaudita. Non c’è nulla di speciale, ma oggi quello che hanno fatto quei dodici attori ha del miracoloso.

Prendiamo la scena in cui Ljuba incontra Trofimov.

Proviamo a immaginare una madre che, parlando di suo figlio annegato in un fiume, mentre piange, debba dire: Il mio bambino è morto, è annegato… Perché, amico mio? Perché? 

Se fosse un film questo pianto potrebbe essere un sommesso sussurro di dolore, e funzionerebbe senza dubbio ma in teatro? Certo il radiomicrofono consente all’attrice di sussurrare questo dolore ma così facendo gli spettatori vengono esclusi. Non perché non sentono, anzi con il radiomicrofono sentirebbero molto meglio che in acustica. Il fatto è che al cinema la Ljuba parlerebbe a Trofimov e poi al pubblico. In teatro deve avvenire il contrario: l’attrice dovrà dilatare la sua voce, il suo corpo, trasformare in pura energia quel dolore e diffonderlo nella platea abbracciandola tutta. In teatro la voce attraversa prima il pubblico e poi l’attore coinvolto nel dialogo. Il fatto poi che questa frase debba subire una dilatazione energetica, non deve sembrarci una distorsione recitativa, quanto invece una trasformazione musicale. Si potrebbe replicare dicendo che nella vita nessuno parlerebbe così. E infatti non siamo nella vita ma in scena. Quel sentimento di dolore non riguarda i due personaggi o i due attori, riguarda l’umanità. Il capolavoro di certi attori è trasformare musicalmente il proprio sentimento personale in un sentimento collettivo. È questa la grande differenza.

Quello dell’attore è un mestiere, che si affina facendolo. Scomparse dal secolo scorso le compagnie, con i teatri pubblici che non danno spazio alle nuove produzioni, con spettacoli che stanno in cartellone spesso pochi giorni, il povero attore dove dovrebbe esercitare il suo mestiere?

Questa è una domanda cruciale e dolorosa. Succede che alcuni attori ce la fanno ad entrare nel così detto giro, nelle grazie di non so chi e di fatto lavorano molto, e in alcuni casi è giusto che lavorino perché sono anche molto bravi. Ma non si va mai davvero a fondo e dunque non c’è mai crescita artistica. In venti o trenta giorni di prove non c’è il tempo per inabissarsi in sé stessi attraverso il testo e la condivisione collettiva dei segni delle biografie degli attori. Questa definizione è di Grotowski e a proposito di libri e di fraintendimenti, Grotowski parla di segni, cioè di forma. Il calco della propria vita, non la propria vita. Quella è una faccenda privata tra attore e spettatore. Non è ammesso nessun altro!

In un mese si può solo ripetere quello che si sa fare, per questo il cast è fondamentale: meglio scegliere quelli giusti per i vari ruoli. Ma così non c’è rischio, né follia, si può solo allestire un testo, più o meno bene.

E poi quante repliche fa uno spettacolo oggi?

Anche le grandi produzioni di fatto l’anno successivo muoiono. E avanti il prossimo. Dunque non c’è sviluppo verticale ma solo accumulo orizzontale. E di fatto nessuno si lamenta. La verticalità la trovi solo in certe compagnie che riescono a tenere in piedi un repertorio: penso a La lettera di Nani, al Pinocchio del Carretto, a compagnie eccellenti nel lavoro con l’infanzia, Mannaggia ‘a mort di Principio Attivo e molti altri che non conosco.

Anche alcune mie creazioni: MACBETTU è quasi arrivato alla quattrocentesima replica, Il Principe Mezzanotte credo l’abbia superate abbondantemente. Sono spettacoli che girano rispettivamente da 7 e 15 anni. Girano grazie al sacrificio e all’abnegazione di artisti e artigiani che tengono in vita il repertorio in un sistema che spinge in direzione opposta.

C’è però un fatto ancor più penoso della mancanza di spazi per le compagnie, e cioè l’illusione dei premi e dei bandi. Ragion per cui la spinta creativa non è più proiettata verso la seduzione o l’incantamento di un pubblico eterogeneo ma verso il rispetto dei parametri di un bando. Possono essere generazionali: ma perché deve essere un valore avere meno di trent’anni? Non è assolutamente vero che così si aiutano i giovani. Così si creano i conflitti e si recide il cordone della trasmissione. I giovani di vent’anni non devono fare gli autori (o almeno non necessariamente), devono imparare il mestiere dai vecchi ottenendo l’onore di condividere con loro la scena. Oppure tematici: il gender, la migrazione, la guerra, prendendo posizione salde, mi raccomando, dalla parte del giusto.

Così facendo si brucia tutta la forza simbolica dell’ambiguità dell’esistenza. E poi questa disperata ricerca di nuovi testi e nuovi autori. Ma per fare cosa? I talenti migliori scrivono sceneggiature non pièce teatrali. Per non parlare dell’incentivo al multimediale, che da più di vent’anni si ripete come un mantra stonato riferito a un’arte che è stata, è, e sempre sarà monomediale: l’attore.

Infine i premi. Quale teatro piace? Quale tipo di attore piace? Ecco faccio il teatro per vincere il premio o il bando. Questa è la morte dell’arte. L’ennesima ferita inflitta ai giovani e alle compagnie.

Sempre più spesso in teatro gli attori sono microfonati. Pare serva per favorire la recitazione. Ormai si microfonano gli attori anche nei teatri all’italiana, quelli che usiamo dal XVI secolo. Quindi, prima del microfono, uno che stava morendo, come sussurrava? Significa che Shakespeare lo recitiamo meglio oggi che nella Londra elisabettiana?

A volte mi capita di prendermi delle confidenze e chiedere ad alcuni bravi attori: ma perché usi il radio microfono? Ripeto parlo di quelli bravi, quelli che non ne avrebbero bisogno e che ad ogni modo comunque lo sanno usare. Perché alcuni neanche lo sanno gestire, cadendo nell’ulteriore imbarazzo di ascoltare sussurri iper amplificati e non capire nulla di ciò che dicono, perché non sanno usare la voce e soprattutto non la sanno spazializzare.

Ebbene le risposte sono sempre le stesse.

La prima: mi serve perché lavoro con la musica dal vivo.

Per millenni gli attori hanno recitato cantando dal vivo accompagnati da strumenti acustici. Nel succitato teatro da oltre 10.000 spettatori all’aperto, se si sa usare la voce non serve alcuna amplificazione e duemilacinquecento anni fa gli attori cantavano accompagnati da strumenti musicali non certo elettrificati.

La seconda risposta è che senza microfono certe sfumature, certe finezze non si possono fare.

A quei pochissimi attori con cui ho una certa confidenza chiedo: ma chi te le ha chieste ‘ste sfumature? Mica stai doppiando Robert De Niro allo specchio!

Certo nell’epoca del sussurro orgastico in cui pure quando si deve chiedere che ore sono, certi attori sembrano nel pieno di un amplesso, i sussurri amplificati possono appagare superficialmente al pubblico.

Infine la risposta delle risposte: perché non si sente.

E così anche i bravi attori ricorrono all’amplificazione mortificando la propria voce che non è più un fatto acustico ma elettroacustico. Non vorrei addentrarmi in ambiti troppo tecnici per le mie competenze ma di certo non è la stessa cosa. Quando la voce esce dal corpo dell’attore con tutti gli armonici e le fragilità possibili e arriva allo spettatore, c’è come un contatto tattile, una carezza, un colpo, un fatto fisico. Quando invece la voce esce da un altoparlante si attivano organi di percezione meno sottili, a parte il fatto che non si capisce mai chi è che sta parlando perché di fatto la voce esce sempre dallo stesso punto morto. E io mi immagino i registi costretti a fare la regia del traffico urbano della vocalità, una specie di smistatore di voci. Si deve capire che sei tu che parli, quindi la scena si piega a questa esigenza di ordine televisivo.

Infine la fatica. Un attore che usa la propria voce per arrivare agli spettatori genera un’energia enorme, al termine della replica è spossato, affaticato. Questa energia è nutrimento e dono per gli spettatori.

In conclusione la verità è una sola: bisogna imparare a usare la voce e la parola (che son due cose diverse) e il pubblico deve imparare a fare silenzio e a nutrirsi di silenzio. E se non sente bene non c’è problema, può e deve immaginare le parti mancanti, le ombre tra le parole. Se invece vuole proprio sentire ogni singolo suono perché ciò che emana quel determinato attore è degno di essere ascoltato ecco, allora deve fare ancora più silenzio e trattenere il fiato, come si fa prima di un’immersione.

Ascolto e apnea sono due ottimi viatici per un’esperienza metafisica.

Shakespeare non lo sappiamo recitare perché lo recitiamo come fosse un film di Scorsese e non un archetipo dell’umanità. Non lo sappiamo recitare perché non sappiamo più declamare, cantare recitando e recitar cantando. Non sappiamo battere il tempo di un verso. Non sappiamo trasformare il senso di una frase in energia sonora. Nell’Orestea appena vista a Epidauro Sophia Hill, attrice straordinaria, interpreta Clitennestra. Lo fa in modo mirabile, con un corpo che si dilata al punto tale che in certi momenti sembra sul punto di allungare il braccio per afferrarti alla gola e farti fare la fine di Agamennone. Ma la voce! La sua voce… una lama che taglia l’aria e ti trafigge nella sua tragicità ma anche nella comicità: modula i timbri fino a farti ridere senza sapere perché (non leggendo i sovratitoli), semplicemente trasformando in suono il sarcasmo del suo personaggio.

Gli anni successivi il lavoro sarà dedicato alla voce e alla scrittura di Scena. Nonostante il proliferare di accademie e scuole, voce e drammaturgie sono due note dolenti. Perché? In che modo pensa si potrebbe riuscire dove evidentemente molti stanno fallendo?

Credo che si potrebbe e dovrebbe tentare di salvare le maestrie in tutte le loro manifestazioni: pensa alla scomparsa delle maestranze, macchinisti in grado di far danzare fondali di duecento metri quadrati come fossero fazzoletti. Tutelare la pedagogia tradizionale ma avendo ben presente i tempi che viviamo. Tempi in cui non si può più chiedere a un giovane di starsene in un angolo a raddrizzare chiodi, anche se sappiamo bene che non è sadismo, perché dietro quella pratica sfibrante c’è in nuce la maestria.

Non si può più andare a bottega.

Non si può più debuttare a 4 anni come la Duse o respirare il teatro mentre si succhia il latte dalla madre. Emma Gramatica era figlia del suggeritore e della vestiarista della Duse, e così trascorse i suoi primi anni di vita adagiata in una culla speciale: la cesta contenente gli abiti di scena della più grande attrice del secolo scorso. L’arte drammatica gli è entrata in corpo attraverso il profumo di una dea.

In un’epoca in cui le prove durano pochissimo e le tournée ancor meno, certi del fatto che la soluzione non sia fare più spettacoli uno dopo l’altro, ma affondare di volta involta in un abisso di verticalità, la domanda è: come creare una pedagogia esperienziale?

È solo una domanda. A cui per fortuna non siamo i soli a voler dare una risposta.

Il nostro è solo un piccolo seminario, un luogo in cui si custodiscono i semi fuori dal terreno.

Mi ricordo che in collegio un giorno le suore ci portarono a visitare una salina e per regalo ognuno di noi ricevette un pacco di sale. Piuttosto macabro come dono no? Ma vi pare possibile regalare del sale a un bambino? È mai possibile consegnare manciate di sale alle nuove generazioni?

Al temine dei nostri atelier noi cerchiamo di regalare ad ogni partecipante una manciata di semi di diversa natura. Sia chiaro che i primi a portarsi a casa i semi sono proprio i così detti insegnanti.

Nel 1987 l’ambientalista Vandana Shiva, partendo da una antica tradizione indiana, fonda Navdanya, una sorta di complessa banca dei semi non geneticamente modificati. La parola Navdanya significa nove semi, e si riferisce alle antiche tecniche di semina di varietà diverse all’interno dello stesso campo per aumentarne la fertilità. Le tecniche antiche sono state da molti anni soppiantate da coltivazioni intensive che di fatto, oltre alla terra, sfruttano anche le popolazioni più povere. Il progetto ha attualmente messo in comunicazione varie comunità contadine rurali dell’India. I semi vengono distribuiti gratuitamente dando lavoro a moltissime persone, soprattutto donne.

Ecco forse la metafora è eccessiva ma di fatto quello che cerchiamo di fare è esattamente questo: ritrovare i semi perduti del mestiere e metterli al riparo da eventuali agenti esterni. Non si tratta dunque solo di insegnare ma di imparare a conoscere, imparare l’amore per la conoscenza. Per quanto mi riguarda mi ritaglio il ruolo di provocatore di eventi creativi. Stimolando attori e maestri.

Io non voglio insegnare, voglio conoscere.

Parlando di scrittura, come si fa a formare drammaturghi se dalle scuole escono ragazzi sempre meno preparati, che non leggono, non hanno dimestichezza con riassunti e temi?

In realtà il teatro ne ha avuti di santi analfabeti, gente poco scolarizzata come Shakespeare ad esempio, accusato da Ben Jonson di conoscere poco il latino e ancor meno il greco. Shakespeare l’autore campagnolo, il bracconiere. Scrivere per la scena implica formarsi sulla scena, le eccezioni sono davvero poche anche se mirabili, penso a Čechov e a Beckett. Nelle loro opere però manca una cosa fondamentale: il teatro. C’è la vita distillata, c’è la partitura musicale, ci sono figure meravigliose e scene sublimi ma manca il teatro. Forse proprio per questo le loro opere sono così potenti: dispositivi perfettamente congegnati che, a contatto con gli attori, infiammano la scena di pura teatralità. Negli uomini di scena invece, come li chiamava Taviani, il teatro è in ogni parola, frase o situazione. Per assurdo sono questi ultimi testi meno precisi perché più prossimi al copione che al testo. Ho lavorato due anni su Il giardino dei ciliegi riscrivendolo parola per parola e credimi è una sinfonia intoccabile. Se lo tagli sanguina. Alla tua domanda dunque rispondo così: li si manda a lavorare in compagnia, possibilmente facendo gli attori. Il fatto che siano poco scolarizzati può essere un vantaggio di questi tempi in cui la drammaturgia è sempre più borghese ed esclusivista. Cechov e Beckett usavano volutamente un linguaggio semplice, pur essendo estremamente colti. I loro personaggi possono essere clochard o aristocratici ma di fatto sono eroi: archetipi che riverberano in qualsiasi spettatore. Un grande drammaturgo non dovrebbe scrivere per il suo pubblico, che so’, quello di ricerca, quello colto di sinistra, quello borghese da pelliccia, quello televisivo, quello impegnato politicamente. Sono a mio avviso tutte forme molto deboli di drammaturgia. Il grande drammaturgo è colui che parla a tutti. Shakespeare tarla a tutti e nelle sue opere non c’è traccia di lui. Peter Brook prende ad esempio Tom Stoppard il quale scrive opere colte e sofisticati per spettatori colti e sofisticati che hanno letto i suoi stessi libri e possono ridere di gusto alle sue battute argute su Freud e Schopenhauer. Diciamo che gli spettatori colti che leggono molto si compiacciono quando afferrano al volo il senso profondo e filosofico di quella determinata frase o ridono di approvazione quando sentono quel riferimento a quel determinato fatto, talmente determinato che solo se sei colto in quel determinato modo lì, riesci a cogliere.

Il paradosso è che oggi se davvero ti vuoi occupare di arte in teatro non puoi non essere colto. Vale per i registi e vale soprattutto per gli attori che, a differenza dei primi, hanno più difficoltà a barare.

Conosco molti che come me si sono avvicinati al teatro dal basso sia di una condizione economica che culturale. Ma il desiderio di fare e di conoscere era tale che i libri poi si divoravano in un istante. E lo stile migliora senza che te ne accorgi, ma migliora a contatto col pubblico. L’ignoranza non è un problema. Perché dal momento in cui decidi di parlare a tutti, soprattutto a quelli che non la pensano come te (proprio per farli cadere nella trappola per topi di Amleto); dal momento in cui decidi di non barare e di essere sincero; dal momento in cui sei pronto a distillare la vita e il dolore che stai vivendo per condividerlo con gli altri (per davvero non per auto compiacimento); dal momento in cui capisci che i sensi di una battuta si trovano in scena e non a tavolino e che la maestra suprema è la musica e non la letteratura; dal quel momento in poi, secondo me, puoi iniziare la scrittura di scena.

La prima edizione dal titolo “IL COMICO E LA MORTE”. me lo spiegherebbe?

Nella comicità c’è sempre un tema e un fondale.

Il tema è la fame: il copione della comicità, dicevano Totò e Peppino. Fame di tutto, soprattutto di cibo ma anche di amore, di sesso, di vita.

Il fondale invece è la morte. Tutti i giochi d’infanzia hanno a che fare con la morte e così le fiabe. Quando Bruno Leone lavora coi bambini al termine dei laboratori chiede: qual è il personaggio che vi è piaciuto di più? La risposta è unanime: la morte.

I motivi sono due. Il primo, come ho appena detto, è la necessità di giocare con la morte per imparare a conoscerla. Si tratta in realtà di un gioco a cui tutti più o meno abbiamo giocato nell’infanzia, un gioco a cui purtroppo smettiamo di giocare per il resto della nostra vita. E questo fatto è una tragedia più che una commedia. Perché smettiamo di imparare a morire e a non avere più paura della morte.

Il secondo motivo è perché non c’è nulla di più comico di quando la comicità emerge da una situazione in cui o si teme la morte o è nell’aria. Pensa ai funerali. A certi tentativi di suicidio. Pensa a tutto Beckett. Se non si impara a guardare in faccia la morte e la fame, non potrà esserci mai vera comicità. Si potrà al più far ridere o esser simpatici. Ma la comicità è un’altra cosa.

Hamm. Perché non mi ammazzi?

Clov. Non conosco la combinazione della dispensa. (Pausa).

1 commento

  1. Sono una regista che detesta il clown. Cerco di spiegarmelo, ma rimango sola e ridicola, come se avessi il naso rosso. Detto ciò, ho letto con voluttà l’articolo. E grazie!
    Mila Moretti

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