Trevinano, in provincia di Viterbo, ha 142 abitanti. L’origine etrusca, la dipendenza da Roma, i feudatari medievali, il legame con Acquapendente e lo Stato Pontificio. E il saliscendi delle strade, in cui t’imbatti in lepri, daini, maiali selvatici – di giorno il frinire delle cicale, di notte le lucciole – lo spaccio alimentare, un castello, la parrocchia, la chiesa della Madonna della Quercia, le case coloniche, i b&b da ricchi, il ristorante stellato La Parolina, la pizzeria Da Gianfranco. E una sala polivalente (gli anziani ci leggono il giornale, le famiglie ci festeggiano i compleanni) in cui si tiene Sulla Maestria, progetto di pedagogia operativa guidato da Bruno Leone, Vladimir Olshansky, Alessandro Serra. Fuori due panche, uno scivolo rosso, un girello celeste, un dondolo arancione e due altalene; dentro una struttura bicromatica. Sono bianche le pareti, le mattonelle del pavimento, il telo che copre un palchetto, gli otto neon; sono nere porte, finestre, tapparelle, parte delle sedie, un telo piazzato sul fondo e il linoleum su cui dodici tra attrici ed attori lavoreranno per otto giorni. «L’intento è di volare alto», «agire i principi del mestiere» e «impiantare, attraverso un impegno pratico, incerto e quotidiano, qualcosa di antico» dice Serra. Volto, trucco e maschera, schiera e spazio, voce, ritmo, coro, attenzione reciproca e la relazione tra corpo e immaginazione, l’uso di un oggetto, cos’è una partitura, come si agisce un canovaccio, un copione, la rimanenza testuale di uno spettacolo, se ha senso ancora parlare di metodo, in che maniera il lavoro svolto in sala determina un’immagine o come scateno in un pubblico non teatralizzato una risata. La comicità, ecco. Mettendo in rapporto (nutritivo, anche per scarto, rifiuto e opposizione) pulcinellerie, pantomime, improvvisazioni registico-attoriali e i saperi concreti e incarnati del circo portato in teatro («non sono un clown ma un attore di teatro fisico, sia chiaro» mi dice Olshansky, in pausa pranzo).
Mi vengono due pensieri, subito. Il primo: la collocazione geografica laterale (altrove da metropoli, luoghi-festival standardizzati e direttrici consuete dello spettacolificio estivo) agevola l’esistenza di uno spazio-tempo che non ha aspirazioni produttive. Qui possiamo studiare per studiare. Il secondo: l’obiettivo non è la somma di biografie, conoscenze e saperi ma la loro intersezione. Riducendo la prassi autoprotettiva dei teatranti (l’abitudine che hanno di nascondersi dietro ciò che sanno già fare), costringendo alla coesistenza, inducendo al dialogo. Con la speranza che l’intreccio dei dialetti creativi di ognuno determini la comparsa momentanea di una lingua comune.
Non a caso, «siamo in cerca di un tra» afferma in apertura Guido Di Palma.
Danio Manfredini quando mi spiega che i processi di studio e ricerca sono innanzitutto un accumulo disordinato di materiali. Che s’alzano nella stanza come gli scatoloni durante un trasloco. Ermanna Montanari quando mi racconta il percorso che congiunge l’abbozzo di un’idea dalla sua prima messa in pratica. Pare di perdersi di nuovo tra le terre di Campiano di notte, mi dice. O Eugenio Barba che ne Il prossimo spettacolo cita Scilla e Cariddi, muta l’esercizio in navigazione e consiglia di non badare ai momenti di quiete, in cui la barca va come deve andare, ma agli scossoni. Il meglio non sta nella via liscia ma in ciò che ti fa intravedere il picco dei flutti.
Mi tornano in mente nelle prime otto ore di Sulla Maestria, governate da Serra, durante le quali – me ne accorgo riguardando gli appunti – ciò che mi resta davvero, nell’avvenuto squilibrio tra parole ed azioni, è l’enorme quantità di suggestioni dette e posate perché qualcun altro da domani le ridesti a suo modo.
I libri di cui si è parlato, ad esempio: da un vecchio almanacco di giochi comprato su una bancarella a Diario di un attore di Erland Josephson e Uomini di scena, uomini di libro di Ferdinando Taviani. I nomi citati nei discorsi (Brook, Kantor, Duse, Beckett, Mastroianni, Colombetti, Shakespeare, Scorzese, Chaplin e Aldo Fabrizi, Nino Taranto, Pupella Maggio, Macario, Emma Gramatica, la capacità di osservazione che aveva Georges Banu, Eduardo che insegnava alle attrici e agli attori come si cammina in quinta senza far rumore, Totò, ch’era «uno scheletro affamato che danza»). Le citazioni di ritorno («puoi piacere o toccare» di Grotowski), gli spettacoli altrui (l’Edipo Re di Robert Carson), le colleghe e i colleghi entrati nei discorsi (Lino Musella, Mimmo Borrelli). Stanno assieme a una serie di domande fondamentali, e proprio per questo rimaste senza risposta («cos’è il teatro?», «che vuol dire recitare?», «dov’è Dioniso nelle cose che fate o vedete in una sala teatrale?», «cosa sa fare davvero un attore?») e a un pugno di frasi che, nei prossimi giorni, potrebbero rivelarsi radianti: «occorre trasformare la parola in un canto», «il compito di un attore è riscaldare l’aria al compagno», «la metafisica va addestrata», «l’azione è un verbo transitivo», «l’attore condivide la propria ferita».
Sta lì, deposta immaterialmente attorno al linoleum, tutta questa roba. Non come i detriti di un naufragio, per dirla alla maniera di Jean-Pierre Vernant, ma come reperti disponibili ad essere riportati in vita dagli attori.
Se è vero che l’intersezione (tutta da costruire, in dubbio, perennemente fragile) è la meta di Sulla Maestria mi chiedo infine, dopo un giorno, dove si è manifestata. La direzione di Alessandro Serra è stata il primo tiro di dadi della partita, la mescolata iniziale delle carte.
Ma il tra che interessa a Di Palma dov’è? Tiepidamente s’accenna nel lavoro svolto da attrici e attori, differenti per provenienza, abitudini, formazione e percorso (il training individuale che talvolta si accorda implicitamente, scegliersi con lo sguardo nell’attraversamento dello spazio, il battito uniformato dei piedi nella chiusura di un esercizio, la stasi scovata quasi all’unisono e un lavoro fatto di azioni e reazioni, buono anche per generare una consapevolezza dell’altro di natura fisica, ideativa e spaziale). E tiepidamente s’accenna oltre il linoleum. È nei discorsi con cui Olshansky – in pausa, mentre discutiamo certe frasi che Serra ha dedicato all’Italia teatrale – racconta del rapporto tra Potere e cultura in Russia, elenca gli esuli ridotti alla fame tra Novecento e inizio anni Duemila, batte una mano sul tavolo e cita Achmatova, Cvetaeva e Mandel’stam con voce spezzata; è nella frase detta di nascosto da Bruno Leone mentre Serra avversa la reiterazione degli stereotipi («il vero Pulcinella è colui che non fa Pulcinella» sussurra), è nel «no» con cui Olshansky commenta la pistola fatta da Serra con la mano destra e l’impiego soltanto di un dito: è nella citazione di Guarattelle di Bruno Leone e del Manuale di clownterapia di Olshansky, nella domanda che Leone rivolge a Serra («com’è possibile, secondo te, che l’effetto ottenuto sul pubblico con una partitura, nata all’improvviso e per stanchezza, non si sia ripetuto mai più?»), negli Scenari delle guarattelle di Nunzio Zampella che scorrono in cirillico sul computer di Olshansky; è nel taccuino di Bruno Leone: la copertina bianca con al centro Napoli vista dalla Rotonda Diaz, le pagine scritte con una penna a quattro colori (blu, nero, rosso, verde) con cui disegna spettri sorridenti, anime cornute, piccole nuvole, giovani dalle guance tonde, fanciulle distese sotto un fiore o un ragazzo, seduto, che stringe un cartello che espone le frasi appena dette da Serra: «Edificare il silenzio» e «Distruggere il silenzio, morte del teatro».
Ostentate come gli slogan di un corteo, paiono un richiamo. E sono una promessa. Forse qualcosa, in questi otto giorni, davvero passerà da te a me.
Alessandro Toppi
Sulla Maestria_Giorno 1: abitare lo scarto
Una sala polivalente di quelle che spesso si trovano nei piccoli, piccolissimi centri abitati come Trevinano, dove siamo, da ieri e per i prossimi otto giorni si fa spazio protetto per l’atelier Sulla Maestria guidato da Alessandro Serra, Bruno Leone e Vladimir Olshansky. In questa zolla di terra in cui si mescolano i confini tra Toscana, Lazio e Umbria si sono dati appuntamento tre modi (mondi?) di fare (di essere?) teatro, insieme a un gruppo di attrici attori, dodici in tutto, per condividere un tempo e uno spazio di formazione, scambio e incrocio.
Suscita entusiasmo già il solo fatto di potersi concedere il lusso di uno studio libero dalle stringenze produttive, un tempo fecondo per dedicarsi a levigare quella perla di cui parla Tanizachi – autore di un libretto delizioso che ha ispirato il titolo dell’atelier – in cerca della lucentezza che rivela maestria di un uomo di teatro. Nelle prime intense otto ore, un vento di suggestioni ha smosso la creatività, lo sguardo, il desiderio: la tradizione come ripetizione e perseveranza, l’antico come liturgico, l’azione come verbo, la recitazione come connessione tra immaginazione e corpo, il corpo come essenza dello spazio, la leggibilità della forma, il rigore della maschera, la geometria come chiave di relazione, il rettangolo come elogio della libertà. Questa carne al fuoco, fatta di voli e accumulazioni non è che l’inizio.
Seduta in un angolo sto ad ascoltare il respiro che dà ritmo al training, a osservare i corpi che diventano stormo d’uccelli che si muovono in ascolto, intenta a rubare con la penna quel che accade, nell’illusione di fissare l’inafferrabile che sta dentro e fuori dal perimetro del linoleum in cui si gioca e si rischia, si sbaglia e si ricomincia; il privilegio è pure di chi guarda, mi dico, coinvolto nello stesso tempo ma in modo diverso nell’attivazione di «altri meccanismi di percezione». di cui parla Serra.
Non è che l’inizio. E nell’incertezza del tragitto, chissà che alla fine non ci sia dato di vedere un raggio di luna tra gli stipiti della porta, come nell’ideogramma cinese del tra di cui parla Francois Jullien e richiamato da Guido Di Palma per l’apertura. Abitare lo scarto, la distanza che c’è tra sé e l’altro, tra un metodo e l’altro, tra una biografia e un’altra, una visione e un’altra, per poter attingere a un fondo comune.
Marta Cirello
Immagino che tra gli “scarti” da abitare ci siano le attrici e gli attori partecipanti dei quali non c’è traccia in questo diario. Spesso la distanza che c’è tra se e l’atro è colmata da un nome pronunciato o scritto.
Ho notato anche lo stesso deficit
quando la Maestria abdica a se stessa facendosi mercato questo accade
Una piccola osservazione che viene da lontano:
Una volta Suzanne Bing, un’attrice senza la quale la scuola del Vieux-Colombier non sarebbe esistita, scrisse a Maurice Kurtz che le chiedeva qual’era stato il suo ruolo: “La mia collaborazione non deve dunque essere citata in dettaglio, tanto per la tecnica corporale quanto per il resto. Così come Jouvet, per esempio, anche se vanta l’invenzione di tale o talaltro apparecchio o procedimento d’illuminazione. In una cattedrale l’operaio è anonimo tutte le collaborazioni avevano una sorgente e bisogna risalire a quella.”
provi a dirlo con parole sue, sarebbe utile