La maestria è nel corpo spettinato e ingrigito di un attore che di mestiere fa il clown. Che aspetta le allieve e gli allievi compiendo brevi passi in sala, le spalle leggermente incurvate, una mano in tasca, l’altra impegnata a toccarsi la barba lunga un paio di settimane. Scarpe da ginnastica, occhiali dalla montatura nera, jeans, polo dal colletto arricciato, parla senza compiere proclami, sciupare frasi importanti, produrre assolutismi teorici. Non ha verità da esprimere. Se non quella di un mestiere incarnato da più di quarant’anni. So, forse, perché ho praticato davvero, quasi ogni giorno. Così in un italiano che conserva l’andamento della lingua russa (saltano le concordanze, ogni tanto una parola suona inventata) Vladimir Olshansky dice non di ruoli, regia o di spettacoli ma di gioia, speranza, felicità. Ti verrebbe di suggerirgli «ma smettila, badiamo piuttosto al concreto» ma non fai in tempo a pensarlo che lui si chiede (rispondendosi) per quale motivo fare teatro, se non per tentare di stare un po’ meglio, o di avere salva la vita. È un atto d’amore afferma, che presuppone tu dia più di quanto possa ricevere e che vuole perciò sacrifici ma d’altronde, conclude, «senza amore non può esistere nulla». Sia chiaro, non c’è buonismo nel modo in cui parla, ma umanità invece – quella che deriva dalla sofferenza provata e assorbita – e c’è una morbidezza, nei toni nei gesti nei ritmi, con cui sembra inchiodarti a un’evidenza: a che serve irrigidirsi, fare i duri, imporre se stessi agli altri quando puoi parlargli convintamente, ma con dolcezza?
La maestria è una sapienza accumulata per esercizio che viene trasmessa attraverso poche formule elencate per accenni (i quattro compiti di un attore: vedere, prendere una decisione, esercitare un’azione, portarla a termine; le cinque fasi di un lavoro: il caos, la messa in ordine del materiale accumulato, lo spettacolo fatto prima del debutto per amici e invitati, il suo perfezionamento attraverso le repliche e l’istante in cui comprendi che non ti resta più nulla da fare e che l’opera o va messa definitivamente a riposo o è pronta per viaggiare da sola). Oppure la maestria si esprime per incisi che sembrano versi detti in prosa – «tutto è possibile per un essere umano», «gli errori sono ciò che ci consente di crescere», «un attore è un’energia giusta, passata allo spettatore» – e attraverso la convinzione che il piccolo contenga l’universo: non siamo che un pugno d’atomi tenuto insieme da una pelle, eppure il nostro cuore è perfetto per spiegare la complessità del cielo stellato. O ancora la maestria è una trasmissione di saperi, norme, segreti, trucchi e meccanismi che potremmo chiamare genericamente “principi” (alcuni antichi millenni, altri nati appena il secolo scorso) e che vengono dati dal Maestro all’allievo o all’allieva con la stessa furbizia con cui un padre o una madre fa bere la medicina a suo figlio: sul bordo lo zucchero, dal bicchiere alle labbra ciò che ti sarà utile, o ti farà forte. Si gioca dunque per tutto il tempo, ma il passaggio di competenze è serio, formativo, prezioso. Trovare il proprio posto nel gruppo o diventarne leader per pochi secondi, spezzare il cerchio, aggirarsi nello spazio e riscattare al punto di partenza, lavorare su pantomima (malleabilità, rigidità) e improvvisazione (idea, azione, velocità e assenza del risultato a tutti i costi), darsi schiaffi e calci finti rendendoli verosimili, morire in scena in quattro movimenti, passare dalla gestualità caotica alla definizione di un atto preciso, dividersi in pecore e papere per cercarsi a occhi chiusi o cantare l’opera, da soli o in duetto, facendo ridere chi ti guarda e ti ascolta. È in questo modo che ti regalo quel che ho imparato, senza che tu neanche ti accorga che lo stai imparando (attraverso la pratica) a tua volta. Già, ma cos’è che sto condividendo con te?

Che i muscoli sono una memoria e che il corpo ricorda, ad esempio.
Che ci sono tre vie da cui viene il riflesso: il dolore, la paura, la gioia.
Che è meraviglioso liberarsi di ogni sovrastruttura mentale.
Che il centro delle nostre emozioni sta tra il petto e il bacino.
Che il segreto di una gag è un finale non prevedibile.
Che la comicità nasce dalla smentita delle attese. O da un sentimento del contrario.
Che esiste una strategia delle emozioni, meticolosamente allestita, che muta la risata in pianto, la commozione in sorpresa.
Che «puoi fondare un mondo con niente»: un’intenzione, un gesto, una direzione.
Che è auspicabile puntare al miracolo. Ma che non serve dispiacersi se non avviene.
Che il silenzio non è vuoto e che una pausa vuol dire «non ho capito».
Che farti ridere è il modo migliore per dirti chi sono, chi siamo o cosa stiamo diventando.
E che ci si parla continuamente con gli occhi. Che sostenere lo sguardo dell’altro è difficile. Ma che non possiamo fare altrimenti: guardami, ti sono davanti. E sono qui per te.
Alessandro Toppi
«Bisogna aver dentro il caos per partorire stelle danzanti», scrive Nietzsche. E seppur qui non è Zaratustra a parlare, tutto il fare e il poco dire di Vladimir Olshansky – attore e clown, ricciolino, arruffato, canuto, un corpo vigile e scattante a dispetto degli anni – portano dentro quel caos generativo in cui vorticano come schegge impazzite tutte le «possibilità possibili» che ogni persona possiede, dice al gruppo. Parla a bassa voce, Vladimir, la sua lingua è tutta interferenze tra russo e italiano, lingua che non gli è naturale, (semmai possa avere senso dire “naturale” di una lingua), e scandisce, prima di iniziare la giornata di lavoro poche cose, e ci tiene che chi ascolta se le appunti per non lasciarle sfuggire:

Guardare
Capire
Fare
E più precisamente:
Guardare e vedere
Decidere
Agire
Realizzare
Ogni esercizio, ogni gioco si attiene rigorosamente a queste fasi con lo scopo di liberarsi, quasi senza accorgersene, da impalcature, da forzature intellettuali, più semplicemente dalla «spazzatura» del pensiero: «Vietato pensare!» e dunque cominciare col ridere perché «non posso pensare quando rido». Tutto il tempo del lavoro è scandito dal ritmo di una risata, in testa, in coda, in mezzo.
E tra le pieghe del gioco lascia che si attivino percezioni – torna questa parola “percezione” – che le energie si trasferiscano da un corpo a un altro, da Olshansky che mostra ai partecipanti che ripetono, da me a te, dal leader al gruppo, da chi fa a chi guarda. È un cerchio. Guardare tutto quello che il corpo fa; prendere una decisione, scegliere uno solo di tutti gli impulsi; fissarlo nell’azione; sviluppare quell’azione sino al suo compimento nella trasformazione. E se questo vale per “sentirsi”, tutto corpo, vale pure per le fasi del lavoro creativo.
È curiosa questa moltiplicazione del riso in un contesto in cui ci prefiggiamo di ragionare sulla morte del comico. «Non dovete far ridere», insiste Olshansky. Bisogna essere veri. Credibili. Seri. La risata che arriva è il momento in cui l’attore lascia tutto al pubblico, avendo il coraggio di donare più di quello che riceve, in un atto d’amore – a riportare quante volte ricorre a questa parola, amore, si finirebbe sconfinare in una melensa retorica che, invece, in lui è del tutto inesistente. Se non accade questo il comico lascia il posto al caricaturale, alle facce, ai mezzucci espressivi. E muore.
Usa, poi, una parola insolita: comodità. La rigidità della forma, il rigore dell’ascolto, il ridisegnamento dello spazio, tutte cose che Olshansky chiama struttura, vanno adattate, abitate, controllate, modificate per starci comodi. È difficile ricostruire un discorso per raccontare il mare in cui sotto la sua guida abbiamo tutti navigato. E il disordine di queste righe denuncia che le regole del gioco non hanno trovato posto a sufficienza qui.
Con semplicità disarmante basterebbe dire quello che lui ha detto: l’attore, senza cui nessun teatro è possibile, non è che un uomo abitato dal caos e al contempo un artigiano con le tasche piene di abilità e tecniche che usa per dare un senso, un ordine delicato. Guarda negli occhi tutti noi e il suo corpo è attraversato da mille pensieri inafferrabili per noi, in silenzio, si dirige verso la porta, esce e la chiude. Poi sbuca da un’altra porta e dice cucù!
Tutto qui.
Marta Cirello