Non avesse settantacinque anni diresti che Bruno Leone è un bambino. Per come si estranea, china la testa e si dedica alla costruzione della capanna o del gioco. La maniera in cui coincide con l’azione praticata, il sorriso che gli viene nei momenti più frivoli: senti come suonano le viti in questa scatola a forma di cuore. Come un bambino, agendo regola a suo modo la concezione del tempo – per noi passa mezz’ora, per lui solo i minuti che servono – e cambia funzione allo spazio: la sala diventa uno spiazzo, nello spiazzo sorge il teatro.
La struttura d’alluminio, le pareti di stoffa, la ribalta di legno, il drappo con gli spioncini, buoni per osservare il pubblico seduto per terra. L’arco con in cima la testa di un ciuco (l’animale dunque la natura dunque la sfrenatezza dunque Dioniso), le scatolette tramutate in tamburi, l’orlo sul quale far battagliare i pupazzi. Ecco, di solito il rapporto tra un uomo e i pupazzi serve a mitizzare a posteriori gli inizi (il debutto di Stanislavskij) o torna come ricordo delle origini (Čechov e la scatola di scarpe tramutata in una grotta). Mentre quando perdura – hai un’età, la smetti di giocare? – diventa segno di un’immaturità che si trascina o il modo in cui ci si estranea per evitare, almeno per un altro po’, la ferocia del reale: Luca che sistema i re magi mentre la famiglia Cupiello si sfascia. Ma le cose stanno davvero così?
Bruno Leone sembra un bambino (la serietà dell’impegno, l’immersione nell’incanto) ma ha settantacinque anni, da quarantacinque fa il burattinaio e quando ha terminato di montare il teatro compie tre azioni. La prima: mostra gli elementi materiali del mestiere (le maschere, gli oggetti, le guarattelle). La seconda: ci avvisa che la questione è seria. «Le disavventure di Pulcinella sono la storia dell’uomo»: la solitudine del diverso, l’incombere del mostruoso, l’aleggiare della fine, le imposizioni dell’autorità, il tradimento di Caino; il sesso, la fame, la violenza, la rivolta, l’illusione, la morte talvolta. E con la morte la rinascita: lo spettacolo termina, il guappo s’ammoscia, Teresina è conquistata. La voglia di vivere ritrova il suo rifiorire irrimediabile. Infine la terza: retrocede, piega la testa, curva spalle e ginocchia, s’infila nella struttura sottraendosi in questo modo dal mondo. Il sollievo che riceviamo quando ci assentiamo nell’ombra («non c’è soddisfazione più grande che sparire»). Un’altra forma della scomparsa conosciuta dagli attori e dalle attrici, che smettono di esistere nell’istante in cui comincia la recita. E il sacrificio che consente l’inizio del rito.
Ebbene, scrivere di Bruno Leone significa interrogarsi sui fondamenti delle arti performative. Paure, misteri ed archetipi, visioni ed immagini. Il movimento come danza, la parola che si trasforma in una musica. La lingua che s’intona come un suono, il dialogo che diventa una partitura orchestrale. Pulcinella «rulla come un tamburo, picchia come la tromba», Teresina invece è un basso ed emana «il battito del cuore». E ancora: «lo spettacolo, che nasce inevitabilmente da un contrasto» («è il conflitto che permette a un’azione di diventare un avvenimento drammatico» direbbe Marija Knebel’).
Il simbolo, «che è forte solo se ambiguo». O l’improvvisazione, «impossibile senza la conoscenza del repertorio e lo studio». E significa ficcarsi in testa che la maestria è un sapere assunto in decenni di pratica («molte cose vent’anni fa non le sapevo fare»), che la qualità del lavoro passa dall’osservazione dei colleghi e dall’accumulo di esperienza, che il confronto continuo col pubblico (oltre a darti il pane) ti consente di comprendere che fai, chi stai diventando, cosa funziona e in che modo puoi continuare a raccontare e durare.
Ma scrivere di Bruno Leone significa anche abbassare a un certo punto lo sguardo, dimenticare i ragionamenti teorici, le convinzioni di principio, e osservare come le sue mani, i suoi calli, hanno concretamente a che fare con le cose e gli oggetti. Il ferro, il legno, i bulloni e le pezze del teatrino, il calco tastabile delle maschere (la forma adunca di un naso, la larghezza degli occhi, il cumulo delle rughe), i ceppi, un anello, un bastone, una chitarra, la vernice e le vesti dei burattini, le lamelle, la fettuccia, lo spago della pivetta. Toccare, afferrare, tagliare, piegare, limare, unire, legare; annodare, stringere, pressare; bagnare sotto l’acqua, aprire la bocca, premere sotto al palato, fiatare. E attraverso l’errore, lentamente imparare a parlare. Sperando che quel che dico s’allarghi, fino a raggiungerti.
Tant’è. A notte fonda mi restano un’immagine e un desiderio. L’immagine contiene le dita tozze, nodose e segnate, di Bruno tra le dita di Chiara Aquaro, che prende parte al laboratorio. S’intrecciano sembrandomi i rami di due alberi d’età differente che confinano confondendosi. Tengono una pivetta, che diventa la ragione del contatto, un mezzo di trasmissione. Insegnami come si fa, ti mostro come faccio. E il desiderio. Perché andati via quasi tutti Chiara s’avvicina a Bruno, abbassa il tono e gli chiede per favore, soffia nella pivetta la voce di Pulcinella. Perché io possa risentirla, facendo di questo strumento uno scrigno, una memoria, una nostalgia.
Una conchiglia.
Alessandro Toppi
Un burattino delle guarattelle è fatto di stoffa e di legno, vive solo se indossato da una mano, parla solo se qualcuno le presta la voce. È un oggetto. Prima di questa occasione, non mi ero davvero soffermata a riflettere su quanto c’è di invisibile in quello che definiamo, nella smania di categorizzare, “teatro di figura”, intendendo quell’universo di possibilità estetiche e poetiche e pratiche che si sviluppa intorno a un “attore” che non è in carne e ossa, ma appunto di legno, metallo, stoffa. Anche se nel panorama contemporaneo questi linguaggi assai spesso vengono riletti e reinventati al di là dei contesti da cui provengono, in modo più, per così dire, astratto, pensare alle forme tradizionali – dall’Opera dei pupi fino al bunraku – produce (almeno in me) un’equazione: marionetta/burattino/pupo = materia. Figurarsi per le guarattelle. Un’arte antica, d’assalto, il cui habitat è la piazza affollata, rumorosa napoletana. Eppure.
Una intera giornata trascorsa a osservare Bruno Leone, maestro che ha girato le piazze del mondo con gli occhi di Pulcinella, e osservarlo qui a Trevinano dove si ha la sensazione che l’unica folla siamo noi e le cicale, ha aperto un varco, squarciato il cielo di carta, mostrando quel che non si vede. I segreti.
Nel silenzio pieno e attento – dell’attenzione, della curiosità, il silenzio dei ladri – Leone monta la baracca, dapprima un mucchio di legni e di stoffe, una struttura pieghevole d’alluminio e «mentre costruisce il suo teatrino, Bruno già è – ha detto Serra il primo giorno – , sprofonda tutto in quel suo fare». Perno dopo perno, prima lo scheletro, poi fondale e boccascena, e poi il “vestito” dietro cui sta nascosto – invisibile – il burattinaio, prende forma il mondo in miniatura ancora per poco disabitato. Gli abitanti dormono ancora in un borsone usurato, di un bordeaux sbiadito, tirati fuori dalle mani grandi, decise e gentili di Bruno.
E poi via, una cantata a Sant’Antonio Abbate, protettore anche dei burattinai, e inizia lo spettacolo: Pulcinella, Teresina e il Guappo ci regalano uno degli scenari più rappresentati del repertorio, Il posto privato. Attori e attrici osservano quel marchingegno preciso, ritmi, voci, apparizioni, partecipano, ridono, ascoltano “attori” che non somigliano a loro perché l’unico “umano” che c’è non si vede – se non per uno spicchietto di stoffa rimasto impigliato nella struttura che lascia intravedere i piedi, mai fermi. Chissà se immaginano, allieve e allievi, di essere il burattino o il burattinaio, mi domando.
La relazione tra il corpo di Bruno e i suoi burattini rimane segreto. Almeno fino a quando, nel pomeriggio, in mezzo alla natura che circonda la Monaldesca, in cui abbiamo residenza, Bruno approfondisce le voci dei personaggi, stimolato da una domanda di Paola Cacace: «che vuol dire che la recitazione delle guarattelle non è interpretata?». E l’invisibile si svela: per mostrare le voci usa il corpo, la postura col baricentro bene assestato, le mani che dialogano tra loro come se indossassero i burattini – un dito indice picchia l’altra mano, evocando il bastone del guappo e la schiena di Pulcinella. Il segreto della vita del burattino è custodito nel corpo del burattinaio, non è niente di metafisico. Rinuncia alla sua presenza per tramutarla in essenza del suo piccolo alter ego.
A tavola, due sere prima, Bruno mi ha regalato un pensiero: «Lo sai perché sono belli i burattini? Perché nei burattini ci è permesso di scoprire il mistero della creazione, della vita. Perché mentre viviamo, camminiamo, facciamo cose ma non ci accorgiamo della vita che ci anima. Ma quando un burattino, un pezzo di legno, si muove e vive tu vedi di che cosa è fatta la vita, vedi la sostanza della vita. Ci chiediamo sempre Come è possibile che si muova e cammini? Ma non ci stupiamo del fatto che noi ci muoviamo e camminiamo».
Un commovente segreto. E giacché dei suoi segreti non è affatto geloso – con quanta generosità ha costruito insieme a ciascuno una propria pivetta, altro elemento invisibile che dà la voce a Pulcinella! – rivela a tutte e tutti il segreto dei segreti, proverbiale segreto di Pulcinella. Ma essendo un segreto, perdonerete, non lo riveleremo.
Marta Cirello
Grazie molte ad Alessandro Toppo e Marta Cirello per queste testimonianze e brevi cronache: per chi non è lì, sono racconti belli e desiderati. Rosa