Sulla Maestria_Giorni 4/5: come due bolle di sapone

L’inizio è un gesto quotidiano, lampante. Staccare un petalo, sollevare un peso, seguire il viaggio di una nuvola, scartare una caramella, mandare un bacio, incrociare le braccia al petto. L’atto non è neutro tuttavia, già in partenza ha una difformità, uno sfasamento – la camminata è sbilenca, il petalo resiste, la caramella non si lascia scartare, le braccia gli scivolano come fossero state imburrate – e questo dice che non abbiamo davanti un uomo qualunque: è il diverso, lo strambo, il tonto, il fissato, lo storto, lo sfortunato, il folle, lo scemo, il buffone della sorte. Che non guarda la luna ma il dito, legge l’ora da un orologio rotto e che per dormire poggia la fronte sul muro. Noi lo guardiamo ripetere la sua azione (l’insistenza cretina, l’incapacità ribadita) e pensiamo: non siamo lui, io sono meglio di così.

Abbiamo dunque davanti quest’uomo (i capelli spettinati, il naso a papagno, le spalle strette, le gambe storte, la pancia gonfia) e ci sentiamo superiori. Lo sottovalutiamo, stiamo al gioco, finiamo in trappola. Facendoci ridere ci ha portato dove voleva. Per dirla metaforicamente: siamo ora in uno spiazzo che equivale a una pausa, c’è un bivio. In che direzione andiamo? Dove ci porta?  A sinistra il sentiero è drammatico. L’uomo nell’afferrare il peso si piega, suda, si sforza, sbuffa, risbuffa, gli viene un infarto, s’accascia e muore. Pensavamo di assistere a una clownerie, era l’invito a un funerale. A destra la via è comica. L’uomo alza il manubrio, chiede e ottiene gli applausi, saluta e se ne va lasciando i pesi a mezz’aria. Erano leggeri come due bolle di sapone.

Sia chiaro, nel nostro discorso la natura del finale non importa (riso e pianto hanno la stessa origine organica e d’altronde fin dall’antica Grecia tragedia e commedia, volo e caduta, festa e ghigliottina s’intrecciano): ciò che conta invece è che l’uomo mette in atto (in un caso e nell’altro) una sorta di strategia della smentita. Ti ho fatto credere e invece. Mi sembrava che fosse ma non è. Col cuore che mi batte palleggio e gioco a basket, un fazzoletto diventa una lacrima, stendo un braccio, rovescio il palmo e ho perso una bambina di dieci anni: «avete per caso visto dov’è?».

Certo, con Vladimir Olshansky gli attori e le attrici lavorano sui meccanismi matematici della gag (annuncio ammaccato di sé, relazione diretta col pubblico, creazione di una temperatura emotiva, monologo interiore ed esteriore, precisione e chiarezza del gesto, rottura della logica del dialogo, improvvisazione sul tema, la circostanza e il singolo gesto e assunzione di un punto di vista inedito sul reale, «vi faccio vedere la vita di una lampada», parcellizzazione del movimento, «azione-punto-lasciare», reiterazione, «massimo tre volte», ritmo, «quattro secondi per il gesto», la parola ridotta a uno stantuffo, «le frasi devono venire dal corpo», sospensione, «occorre creare un’attesa», e una chiusura non prevedibile). E tuttavia infine io guardo Vladimir smettere o allontanarsi sul fondo (s’intristisce come un bambino che s’accorge d’essere rimasto da solo a giocare a nascondino, si spegne come un pupazzo a cui si scaricano le pile, sfuma come un bagliore terminale e va via come una foglia) poi guardo noi che ridiamo del suo numero e penso che abbiamo scampato il pericolo. La comicità è anche un dolore mancato. Festeggiamo battendo le mani, siamo vivi, la gravità della terra per questa volta non ci ha toccato. Ci sarebbe potuta cadere in testa una tegola, invece non era che il bianco fiocco di un pioppo.

Alessandro Toppi


Prima di diventare un burattinaio (in verità, mentre lo era già ma non del tutto – c’è sempre uno spazio della vita in cui un artista non è ancora solo un artista ma fa, per campare, anche qualcos’altro), Bruno Leone è stato, in una delle tante vite che ci regala in forma di aneddoti, un sundriesman o sundryman, operaio incaricato di varie mansioni in una fabbrica di biscotti in Inghilterra. Faceva parte di una catena di montaggio tutta femminile, e al momento della sua assunzione gli fu raccomandato di «non dare confidenza a nessuno». Basta incontrarlo e averci a che fare un paio di minuti per intuire che quel precetto era per lui inapplicabile. Difatti, lo ignorò. Entrò in relazione con le sue colleghe, distraendole di tanto in tanto con una risata.

Il quaderno di Bruno Leone in cui riporta il racconto della fabbrica

Durante un turno, per smontare l’indefessa dedizione delle lavoratrici, Bruno prese una intera cassa di biscotti bene imballati e la lasciò cadere di proposito. Alla sospensione sgomenta degli altri rispose mostrando il suo sorriso – «la faccia più buffa del mondo» – soddisfatto di quella “marachella”. Tutte risero. Bruno fu poi chiamato da un responsabile dicendo che non riuscivano a capire perché di tutti i turni che si susseguivano a ciclo continuo in fabbrica il suo fosse il meno produttivo.
Sulla catena delle macchine aveva vinto la catena delle relazioni umane.

Stacco.

A Trevinano, durante l’ultima giornata interamente dedicata al suo lavoro – il calendario dell’atelier prevede due intere giornate per ogni maestro – Bruno mette in mano ai partecipanti i suoi burattini e sul viso le dodici varianti di maschere di Pulcinella che ha portato con sé. Due possibilità di “sdoppiamento” di sé.

Indossata la maschera chiede loro di muoversi nello spazio e guardare se stessi negli altri. Riconoscersi in chi sta di fronte. Qualcuno modifica l’assetto del corpo, qualcuno cerca un modo per esplorare le espressioni di un volto fisso, qualcuno si concentra sullo sguardo – cosa significa guardare se i miei occhi non sono visibili? –, qualcuno indossa con la maschera anche la “forma” del carattere del personaggio, qualcuno più semplicemente osserva il fare di compagne e compagni. Non è importante, né divertente, misurare la riuscita dell’esercizio, quanto invece è interessante registrare tutte le possibilità che ha aperto un compito così ampio con un oggetto (che oggetto non è, in verità) così stringente come la maschera.

Stacco.

Bruno Leone durante l’esercizio con la maschera di Pulcinella

La pausa, tempo dell’ascolto, segreto del ritmo sulla scena, è un indispensabile momento di ricognizione e rivelazione. Anche quando serve per pranzare. Un tempo prezioso in cui si condividono riverberi, echi e sensazioni sul lavoro svolto. Proprio a tavola Vladimir Olshansky chiede a Bruno Leone come sia possibile portare a termine un esercizio come quello proposto con la maschera senza chiarire quale motivazione interna, quale sentimento, quali circostanze (anche emotive) sono date nel momento in cui la si indossa – «qual è lo scopo?». La risposta di Bruno è spiazzante: «A questo ci hai pensato tu ieri, Vladimir, lavorando con loro sull’uso e la funzione del naso». Senza bisogno di addentrarsi nella descrizione degli esercizi a cui fa riferimento, Leone considera il lavoro di Olshansky come il precedente per comprendere il suo esercizio. Come a dire: se tu non avessi fatto quello io non avrei potuto fare questo. Una catena di montaggio in cui non si confezionano biscotti ma esperienze. Una “fabbrica” in cui il clown e il burattinaio si sono “dati confidenza” l’un l’altro.

Il progetto coraggioso di questo atelier Sulla maestria nasce e si sviluppa nella convinzione che i saperi di un’attrice o di un attore siano il risultato di intersezioni, incroci, catene di esperienze. La domanda-non-domanda che sorge ed è destinata a rimanere, a tre quarti di questo percorso, è: quanto è stimolante registrare e osservare tutte le possibili “confidenze”, anche a scapito della produttività?

Marta Cirello

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