Sulla Maestria_Giorni 6/7: cosa rimane?

I tentativi visti sul corpo degli altri, che risuonano sul mio corpo seduto nello sforzo dell’attenzione verso ciò che accade in sala per otto ore, al riparo da uno sguardo morboso, in empatia col sudore di chi tenta, inciampa, ascolta, a volte spaventato a volte convinto, e le frasi che ci hanno attraversato, e le direzioni indicate dai maestri… Di tutto questo metto qui poche parole, un glossario provvisorio, e alcune immagini: formano un album, per non perdere la memoria.

Forma. La «dignità della forma», la «semplicità della forma», la «forma piccola», la forma leggibile; una forma da costruire, da smontare, da adattare a sé. Una ricerca difficile, che necessita di un ascolto di sé, dell’altro. La forma del corpo neutro verticale, equilibrio sottile di spazi – il mantra di Chiara Michelini: lo spazio tra i piedi, tra le braccia, tra gli occhi, tra le labbra, tra le dita delle mani, la cima della testa regge il cielo, i piedi affondano nel pavimento.
La forma geometrica del triangolo che mette in relazione il corpo degli attori con lo spazio, e dentro al triangolo le forme ricercate dagli attori e dalle attrici, «forme aperte» all’intervento dell’altro – il mio inizio, il tuo sviluppo, la nostra conclusione.
E ancora: la forma della mano nascosta sotto al burattino e la forma della lingua per usare la pivetta secondo Bruno Leone, la forma-punto che segmenta l’azione del clown per Vladimir Olshansky.  

Struttura. Il disegno, le regole, lo spazio e il tempo definiti, il confine della struttura che lascia liberi. Liberi di scegliere come stare nelle cose. Nel cortocircuito di questa apparente contraddizione chi agisce prende continuamente le misure: nell’infinità dell’universo, d’altronde, nessuno saprebbe cosa cercare.

Archetipo. Percezione. Mente. Ogni parola porta con sé una serie di equivoci, fessure – non fratture – all’interno delle quali ci si concede lo slancio del rischio, l’euforia del piccolo risultato, la frustrazione della caduta. Scegliere cosa faccio, cosa vedo, cosa sento, spingere l’aria con la pelle per avvertirne la densità. Allenare, dice Alessandro Serra, una percezione sottile, perché è quella che ci permettere di toccare lo spettatore.

E le immagini poi. Roberto che si spoglia di sé quando toglie la maschera, Paola che chiede di cambiare forma quando è troppo tardi e il maestro dice sì – sta lì per questo, il maestro, per concederci una seconda possibilità. Pulcinella che canta in veneto per essere meglio indossato da Caterina, Andrea che prova la pivetta mentre pulisce con cura la sala, il sudore di Massimiliano che si spoglia del naso da clown ma conserva lo sguardo stupito di un bambino, Chiara che perde il focus di un esercizio e il maestro che commenta: l’esercizio era sbagliato, ma tu hai vinto. Perdere o vincere, fallire o raggiungere: un gioco di travasi.

Al momento di fare le valigie lo spazio è sempre troppo poco, i vestiti che erano ben piegati non stanno più in quello spazio che sembra ora più stretto. Si arriva piegati e stirati, ai laboratori, e quando funzionano si va via più sgualciti, usati. Come gli oggetti antichi di cui ci parla Serra (l’armadio de Il giardino dei ciliegi, le setole di una vecchia scopa riutilizzata ne La tempesta, la bara del Macbettu che attraversa il palco in diagonale: antica macchina della pioggia tornata a vivere lì dove era stata seppellita): la patina li rende più preziosi. Così le persone: qualcosa prendo, qualcosa lascio. Ma è tutto ancora troppo aderente per capirlo.

Marta Cirello

«Quando penso al laboratorio penso alla vita» E «vorrei praticare più strade», «essere aperto ad altre esperienze», «rimettere tutto in discussione». Antonio Neiwiller parla di una figura spellata, che ha gli organi, il cuore e i pensieri esposti alle intemperie, ai venti, alla luce e che dice: guardami, sono qui per essere toccato dall’inatteso, per mettermi in uno stato di precarietà, per mostrare non la forza ma i vuoti. Condizione rara, presuppone più ascolto che voce, e la disponibilità ad essere afferrati, scossi e spostati. Eppure quanto è difficile: abbassare le mani, non giocare in difesa, mostrare un’incertezza, una frattura, smettere di sentirsi parlare, non recitare. La mia autobiografia, i libri che ho letto, i film che conosco, le citazioni che ripeto puntualmente e gli spettacoli fatti, le convinzioni inderogabili – non ho forse ragione? –, la mia idea di teatro, in contrasto con ciò che domina il sistema e il mercato. Scegliere di mostrarsi certi della direzione da prendere (potete anche guardare da un’altra parte ma la via è questa) invece di cogliere l’occasione  dalla perdita. Che peccato. Sarà per questo che dei giorni trascorsi a Trevinano conservo anche e innanzitutto i momenti in cui è stata evidente la difficoltà. L’attore che dice «che fatica» dopo aver usato per la prima volta le guarattelle. L’attrice che chiede «come si fa?». Il Maestro che risponde «non so». Le ginocchia malamente piegate nel training, un’improvvisazione finita ancora prima di nascere, una figura creata che manca di chiarezza e rigore; i piedi che battono troppo facendo rumore, la variazione di un esercizio che aspira alla profondità ma genera soltanto un groviglio, due pupi usati malamente; le domande rimaste inevase («Cos’è il teatro?», «Cosa vuol dire recitare?», «Quanto davvero c’è di soggettivo e oggettivo nell’arte?»), la conduzione del laboratorio quando  divaga oltre le proprie competenze consuete mettendosi a rischio – «il fatto è che ciò che m’importa sono le persone che ho davanti» e non le regole che ho in testa –, l’interprete che esce dallo spazio di scena e, senza farsi vedere, va a piangere perché non è riuscito a performare come gli è stato richiesto.

L’attore che resta fermo in un angolo durante un esercizio collettivo, l’attrice che si sente persa dopo essersi tolta la maschera,  due interpreti che s’impallano pestando la stessa linea prospettica, la variante di un’immagine che ci annoia lo sguardo, un naso finto che non dovrebbe cadere ma cade, una gag che non fa ridere, una pivetta che non funziona, il pomeriggio in cui il lavoro sbraca e si perde: ma che diamine stanno facendo? «Ho avuto paura», «mi sono sentita incapace», «mi sono messo vergogna», «era come fossi in competizione con gli altri», «ho provato e fallito». Dicono il valore delle difficoltà. Che è alla base di ogni ricerca. E d’altronde c’è nel risultato mancato un potenziale di crescita, e c’è nell’errore la ragione per cui siamo stati qui. Non eravamo in cerca di conferma dei principi che già possediamo. Ne desideravamo di nuovi. Li abbiamo trovati?

In un saggio che ha la forma del quaderno d’appunti e che è  dedicato al rapporto tra morte e  permanenza Nicola Chiaromonte  scrive che la qualità dei giorni passati non appare nell’assillo breve della cronaca ma riemerge dal tempo lento del ricordo.  Poi aggiunge che la domanda più importante che ognuno di noi dovrebbe farsi è «cosa rimane?». Quindi, pensando alla propria esistenza, si dà la risposta: «Rimane, se rimane quello che si è, quello che si era. Rimane l’amore, se lo si è provato, l’entusiasmo per le azioni nobili, per le tracce di nobiltà e di pregio che s’incontrano nelle scorie della vita. Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male (e non si deve fare che sia diversamente). Rimane quel che si era, quello che merita di continuare e durare, ciò che ci sta. E di noi, di quell’ego da cui non potremo mai strapparci né abiurarlo, non rimane più nulla».

Per una settimana venticinque persone sono state per otto ore al giorno in una piccola sala di un comune minuscolo. Hanno agito e osservato non il teatro, la clownerie, le guarattelle ma la pratica incerta di alcuni fondamenti. Cercando un passaggio di competenze, aspirando a ottenere e registrare la trasmissione di un sapere concreto. Attorno il silenzio, nel caldo, stando gomito a gomito. Stagione rubata al resto della vita, direbbe William Shakespeare,cosa rimane?

Lo capiremo dandoci tempo. Lo capiremo facendo memoria.

Alessandro Toppi

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