di Martina Bravo

“Autobiografia. Ceci n’est pas une/mon autobiografie” di e con Giovanna Velardi è stato realizzato dalla coreografa e interprete siciliana dietro l’insistente invito di Roberta Nicolai, debuttando a Roma a dicembre 2023 e ripresentato durante il festival Tendance, tenutosi dal 17 al 26 maggio.
Come mi ha raccontato lei stessa, Giovanna ha preso questa richiesta come “una cosa brutta”, domandandosi se ormai fosse giunta la fine della sua carriera. Ma nonostante le sue paure, nonostante i suoi timori, ciò che è venuto fuori è un capolavoro, un gioco di posizioni e lingue che rappresentano lei, le sue esperienze, anche tragiche, e i suoi studi su marionette e personaggi, la sua particolare attenzione al gesto, al dettaglio, alla fluidità del movimento. E tutto il suo spettacolo la rappresenta.
In ben cinque momenti diversi parla al microfono, ogni volta in una posizione diversa, ogni volta di un argomento diverso, in tre lingue diverse. All’inizio raggiunge il microfono solo in punta di piedi, parlando in siciliano di una scena della sua vita che le ricorda quella tipica di film con attori siciliani: quando il suo compagno aveva portato nella casa in cui si erano momentaneamente trasferiti una quantità di pesce tale da riempire non solo il tavolo, ma anche l’asse da stiro, perché erano ancora “accampati” ed era tutto sporco di salsa e sugo. Giovanna mi ha poi detto come sia stato terribile per lei stare fuori casa, lontano, ma «l’abbiamo fatto con allegria, come se fossimo una famiglia».
Ricorda con lo stesso dolore e la stessa gioia la sua vita in Francia, paese in cui è rimasta così a lungo che, ormai, considera la sua seconda casa. Specialmente le città di Avignone e Marsiglia, tra le quali si spostava continuamente con la sua amica Ivana, nel “macinino” bordeaux di un loro amico, che, come ricorda, aveva nel portabagagli una bottiglia di vino e un bicchiere che tirava sempre fuori. Racconta poi, sempre stando in piedi dietro la sedia, come questa macchina, un bel giorno, semplicemente scomparve. O almeno lei non ricorda esattamente che fine abbia fatto. Solo che prima era parcheggiata. Poi non più. («Ivana dice che l’ha portata via il carroattrezzi» mi ha spiegato in seguito).
Questi sono i due eventi più felici che narra: il primo e il quarto, intervallati da due altre scene della sua vita in Sicilia e seguite da una della sua vita in Francia, più drammatici i primi e più triste l’altro.
Parla di un terremoto, in piedi sulla sedia, posta direttamente sotto al microfono, verso cui si china leggermente, morbida e rigida come una marionetta. Parla di come la mamma dovesse prendere delle ceste per mettere i pupi, di come «anche noi eravamo pupi», di come nelle ceste finirono solamente le marionette che salvarono dalla devastazione portandoli sulla testa. Una narrazione frenetica, quasi a riportare tutta l’ansia e la tensione del momento, la paura, la sollecitudine, emozioni rese ancora più vive e ancora più acute dalla successiva danza. Questa, ricca di scatti e mosse simili a quelle delle marionette stesse, accresce e fa nascere una sensazione di attesa, fin quando Giovanna inizia a muoversi avanti e indietro, per un breve tratto del suo palco, gesticolando freneticamente, come se volesse parlare con qualcuno fuori scena. Resta, poi, quasi accovacciata, quasi immobile, e inizia a girare sempre più velocemente sul ginocchio protetto da una ginocchiera, per poi di nuovo alzarsi in piedi e parlare con toni sommessi alla stessa figura fuori campo di prima e nuovamente andare a terra e di nuovo alzarsi in piedi.

Si avvicina poi quasi di soppiatto alla sedia, in un falso sentimento di tranquillità che in realtà nasconde ansia e preoccupazioni. Sposta il microfono avanti, fino a raggiungere la sedia, spostata precedentemente, mentre a scatti si avvicinava alla sua audience. Sedutasi, piega l’asta del microfono, finché questo non le arriva sopra la testa. Tenendosi sul sedile della sedia, accasciandosi su questo, ma allo stesso tempo in tensione, Giovanna Velardi continua il racconto della sua vita. Parla di un qualcosa che ha molto segnato la sua vita di giovane ragazza nonché quella di tutta Italia. Racconta di un’esplosione, della casa in fiamme, del bagno nel quale vedeva il profumo Borsalino sul mobiletto, di lei che corre fuori casa a chiamare il padre. Dice che «era un giorno di luglio, ma la data non la ricordo». Non dice esattamente a cosa si riferisce. Ma lo lascia intendere. Gli indizi ci sono. Parla dell’attentato a Paolo Borsellino del 19 luglio 1992, la strage di via d’Amelio, quella stessa via dove lei viveva, dove lei era passata appena dieci minuti prima. Una storia tragica, che la paventa, che vorrebbe dimenticare e da cui vorrebbe distaccarsi. E man mano che racconta Giovanna diventa sempre più rigida, sembra sdraiarsi sulla sedia fin quando, avendo finito di parlare, si lascia cadere sulle ginocchia, davanti alla sedia, dove inizia a ballare, ancora a terra, su una musica sempre più allegra. Le sue mosse si fanno sempre più veloci, fin quando, improvvisamente, si ferma. Si alza in piedi e, sperduta, va verso dei vestiti che stanno sul pavimento e indossa le scarpe poggiate lì vicino, parlando della sua paura per gli spazi grandi. Finché non ricomincia la musica, un suono di quelli che sembrano flauti, e Giovanna, per terra, si muove come una marionetta, ma gattonando avanti e dietro, a destra e a sinistra, per raggiungere il centro del palco e alzarsi sulle ginocchia e, rotolando, con tono giocondo ripete due frasi in francese: «mami regarde» e «tu est parti où?» che richiamano un suo lavoro precedente, appartenente al suo “periodo francese”: la “Pupidda”, che dedicò alla nonna. La musica rallenta e lei comincia a danzare su una base di campanelli, alzandosi più volte sulle punte protette dalle scarpe, girando su se stessa, ruotando la gamba, facendo alcuni piccoli salti. E poi raggiunge il microfono. Ma non come aveva fatto fino a quel momento, in linea retta, seguendo il tragitto più veloce. Adesso fa tutto il semiperimetro del palco, passando vicino al suo pubblico, a indicare il lungo viaggio fino alla Francia, tanto che subito dopo parla di quell’episodio della macchina e dei continui spostamenti tra Avignone e Marsiglia già descritto precedentemente.
Allontanatasi dal microfono, continuando a ripetere «Avignon, Marseille» sempre più piano, muove con piccoli movimenti piedi e braccia, su una base di pianoforte che va a svilupparsi in una musica sempre più ansiosa e misteriosa, mentre i suoi gesti diventano scatti che si ripetono quasi identici a ritmi sempre più veloci e intensi, spostandosi e camminando avanti e indietro tra la sedia e il centro del palco. La musica si trasforma in un rumore assordante, mentre la camminata diventa frenetica, fermandosi poi insieme al rumore. Nel silenzio assoluto, a sottolineare l’importanza del momento, Giovanna osserva, seduta per terra, un coniglietto di peluche trasportato da una macchinina telecomandata in scena, seguendolo prima unicamente con lo sguardo, poi con tutto il corpo, a gattoni. Il coniglio rappresenta qualcosa di molto semplice eppure importante: l’infanzia, sotto forma del coniglio di “Alice nel paese delle meraviglie”, che rimanda alla fantasia dei bambini, al gioco, allo stare bene in famiglia.
E sulla scia dell’infanzia, inginocchiata dietro la sedia e utilizzando il suo schienale come la scena o il palco di un teatrino come indubbiamente abbiamo provato tutti da bambini, Giovanna racconta di Aldéric, un ragazzo francese “très beaux” di cui era innamorata. Narra di come lui la inviti a casa sua di domenica e lei, combattuta tra l’andare in chiesa e andare dal ragazzo che le piaceva, alla fine sceglie quest’ultima opzione, presentandosi davanti casa sua puntuale, bussando alla porta. Dice di come Aldéric avesse risposto, ma senza aprirle la porta, davanti la quale lei rimase per ore. E di come, quando finalmente le aprì, lui semplicemente disse di essersi pentito di averla invitata. Parla della sua più grande delusione, di quella terribile sensazione di non essere voluta.
E con questo Giovanna Velardi si prepara a concludere la sua rappresentazione, richiamando il tema della marionetta che aveva caratterizzato il primo intermezzo tra le vicende della sua vita: indossa un naso bianco da clown che rimanda a quello arancione a punta da Pinocchio usato all’inizio, con il quale ha messo in atto e rappresentato quelli che sono i suoi studi sulle marionette, interpretando un burattino che si muoveva a scatti con quella rigida flessuosità da pupazzo di legno seduto su una sedia.
La vera conclusione è data, però, dalla domanda ripetuta più volte con tono sempre più teso e disperato «Perché lavoro solo io qua?» in siciliano, in un chiaro riferimento kafkiano.
Si potrebbe dire, in realtà, che lo spettacolo messo in scena da Giovanna Velardi non è un’autobiografia, quanto un doppio racconto della sua vita: uno parla di cinque momenti importanti per Giovanna e la sua vita, significativi; l’altro, invece, parla dei suoi lavori in ambito professionale, a partire dallo studio della marionetta, per poi passare a opere messe in scena da lei stessa. E soprattutto alla sua fonte di ispirazione, perché i fanciulli trovano tutto nel nulla, mente gli adulti trovano il nulla nel tutto.
AUTOBIOGRAFIA. Ceci n’est pas une/mon autobiographie
Di e con Giovanna Velardi
Collaborazione registica e drammaturgica Roberta Nicolai
Sound designer Angelo Sicurella
Progetto concepito all’interno di Oscillazioni/Teatri di Vetro 2023
Produzione PinDoc
Coproduzione Triangolo Scaleno Teatro/Teatri di Vetro
Con il sostegno di MiC e Regione Siciliana