Chi dice che il Novecento abbia veramente rivoluzionato il teatro? Non ha forse fatto le stesse cose di prima, condendole solamente con autoanalisi e semplificazione? Stivalaccio Teatro sembra comunicare qualcosa del genere: si entra stringendo la mano al pubblico e blaterando consonanti aspirate in toscano – e già la quarta parete è rotta –, e con questo pubblico si interagisce, lo si invita sul palco, gli si cavano fuori parole dalla bocca, lo si fa urlare e si investe di energia. Il Living Theatre cosa ha aggiunto a tutto ciò? La perturbazione, il fastidio? Eppure, se si esce ridendo, si è stati profondamente turbati.
15 luglio 1574: nasce la Compagnia dello Stivale, gruppo realmente esistito ispiratore della saga di Stivalaccio Teatro, che, in tre atti, racconta e ripercorre le vicende di una realtà storicamente convalidata, a cavallo tra Don Chisciotte, Romeo e Giulietta e Il malato immaginario di Molière. Il 29 e il 30 ottobre 2024, al teatro Sala Umberto, sotto la direzione di Alessandro Longobardi, a Roma, prende vita il secondo episodio, incarnato da Anna De Franceschi, Michele Mori e Marco Zoppello, che con tre corpi e una scenografia danno vita a una narrazione stratificata, complessa, varia e tecnicamente impeccabile. Alberto Nonnato – scenografo – inserisce la vicenda in un semplice e piccolo palcoscenico in legno, ornato di insegne e campanacci. Pochi oggetti e molte maschere – a cura di Roberto Maria Macchi –, strumentali ognuno a azioni teatrali precise e efficaci: un pantalone-capuleto, due spade, un prete-ruffiano, la coperta di una sirena. Anche il trucco (i costumi sono di Antonia Munaretti) gioca un ruolo importante, imbianchendo ad esempio il viso di un pallido Girolamo Salimbeni. Gli attori impersonano ognuno un personaggio storico realmente esistito, membro della compagnia: Veronica Franco e Giulio Pasquati sono gli altri due.
Incaricati dal doge di Venezia di mettere in scena Romeo e Giulietta, i commedianti si arrangiano a trovare una prostituta e trasformarla in attrice per la modica cifra di 10.000 ducati – cioè tutto il compenso –, a cui bisogna aggiungere il palcoscenico stesso, come pegno, e i corpi dei due attori, alla di lei disposizione per un anno in caso di successo.
Il meccanismo drammaturgico si regge quindi sullo spettacolo nello spettacolo: una meta-teatralità non perniciosa né ostentata, pretesto e non scopo, che regge lo spettacolo senza costituirne il fulcro. Nella seconda parte il trio si abbandona a un’improvvisazione, retta dalle parole scelte casualmente fra il pubblico. Lo spettacolo è talmente colmo di trovate che enumerarle è impossibile: giochi di parole, azioni ritmiche, situazioni ingaggianti, paradossi. È messo in campo un numero esorbitante di dialetti; le battute si generano una dopo l’altra, dentro quella particolare zona a metà tra il familiare e lo sconosciuto che scatena il riso; si creano delle situazioni che in se stesse fanno sorridere e generano apprezzamento. Girolamo Salimbeni, travestito da prete, si aggira tra il pubblico inzuppandolo di acqua santa, e ogni gesto nervoso ed energico è accompagnato da grasse risate e scattosi tentativi di evitare il getto. Veronica Franco, in una scena, interpreta sia Giulietta che la balia, alternando un romagnolo gretto e veloce a una recitazione stupida e sognante; mirabili i giochetti che fa con il vestito, che ora diventa copricapo che lascia sconciamente scoperte le gambe, ora torna abito del mestiere. Giulio Pasquati corre fuori, indignato per i sotterfugi dei compagni, e recita di nascosto il monologo finale di Macbeth.
Fondamentale nell’economia dello spettacolo è il rapporto tra attori e pubblico: i primi sono dei direttori d’orchestra, che tengono in bilico, attirano, scatenano risate, fanno urlare, parlare, invocare, commentare. Sembra realmente di essere tornati indietro nel tempo: il pubblico se ne esce dal teatro agitato, su di giri, attivo; disinibito. «Stia zitto per favore», dice a un vicino chiacchierone una signora, la cui energia sopita era stata riaccesa da una battuta, un lazzo, un gesto. Non solo: esso è direttamente coinvolto, a parole o con le azioni. Riferendosi a una signora il cui singolare urlo-risata riecheggia ciclicamente tra le battute, viene detto: «Vai a trova’ una pasticca per la signora che ride tanto»; uno spettatore sale sul palco per fare la parte di Romeo, diretto da un ventriloquo – non così tanto – nascosto, mentre l’altro saltimbanco siede al suo posto nella platea: «Tengo io compagnia alla su’ moglie!».
È di Marco Zoppello, uno dei tre attori, il soggetto originale e la regia: se l’ideale romantico dell’artista solitario non fosse puntualmente smentito dalla dimensione collettiva della creazione, sempre frutto del compromesso – specialmente a teatro –, e se il presente lavoro non fosse visibilmente figlio di una stratificazione che forse ha richiesto anni, se non decenni, di rodaggio – e dunque l’intervento di molte forze in campo –, e se il merito del singolo non fosse in questo caso oscurato dall’appartenenza a una solida e precisa tradizione teatrale, avremmo parlato di genialità.
Lo spettacolo fa emergere una dimensione di contemporaneità, seppur in una cornice datata. Non solo nei contenuti («All’ombra dell’ultimo sole… con i gendarmi? I soliti abusivi… E Chiara Ferragni.»), ma anche nello stile, che mischia le carte e innova, complessifica e articola, partendo dalle radici classiche della Commedia dell’Arte e della tradizione teatrale europea in genere, per svilupparle e conferire loro nuova linfa. È ancora vivo quel senso comune aristotelico che fa ridere i bambini, che fa capire sempre tutto a tutti. Si tiene viva una tradizione, per cui si semina su un terreno già coltivato, sperimentando all’interno e non fuori un perimetro. E rendere attuale – cioè fruibile – qualcosa di vecchio, attraverso vitalità ed efficacia, senza ridurlo a ricercata citazione né vuota prosecuzione di un modello, è indubbiamente cosa non di poco conto.
Forse, è solo il rispetto per qualcosa di più grande di sé che può generare qualcosa di veramente grande. E la frase con cui la compagnia ama concludere i suoi spettacoli sembra essere testimone di un atteggiamento simile:
“Viva il teatro, viva la commedia!”
Romeo e Giulietta. L’amore è saltimbanco
soggetto originale e regia: Marco Zoppello
con (in ordine alfabetico)
Anna De Franceschi/Veronica Franco
Michele Mori/Girolamo Salimbeni
Marco Zoppello/Giulio Pasquati
scenografia Alberto Nonnato
costumi Antonia Munaretti
maschere Roberto Maria Macchi
produzione StivalaccioTeatro
consulenza musicale Veronica Canale
duelli Giorgio Sgravatto
datori luci Matteo Pozzobon
organizzazione Federico Corona
amministrazione Marta Broccardo
progetto grafico Caterina Zoppini